L’Altro Carcere di Gramsci

by Editore | 28 Gennaio 2012 9:18

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Un romanzo storico e un romanzo a tesi. Sono i “generi” che s’intrecciano nel volume di Franco Lo Piparo, I due carceri di Gramsci, appena uscito per Donzelli. Mai come questa volta spiegare un titolo non sarà  superfluo. La trama storica percorre il destino toccato all’esponente sardo che nel 1928 il Tribunale speciale fascista condannò a vent’anni di reclusione (ne avrebbe scontati sei, ovvero otto se si calcola la fase d’arresto preventivo). Ecco, invece, la tesi. Secondo l’autore, alla pena inferta a Gramsci si sarebbe aggiunta, dopo la concessione della libertà  condizionata, una condanna al silenzio. La decretò, a suo danno, il partito di cui egli era stato a capo. Fu un altro carcere, metaforico, di cui Gramsci avrebbe sofferto fino alla morte, nell’aprile del ’37 (con una postilla finale in cui si avanza la tesi di un quaderno, l’ultimo, scomparso). 
È in questa seconda direzione che si sviluppa la ricerca di Lo Piparo, un filosofo del linguaggio che con Gramsci si è più volte misurato. Egli illustra ogni passo degli scritti gramsciani che sorreggono l’assunto. Il quale, agli occhi di chi abbia familiarità  con la figura del leader sardo, risulterà  meno provocatorio di quanto prometta. È infatti lontano il tempo in cui veniva data per scontata la concordia fra i testi gramsciani e le posizioni di quel Pci che lo avrebbe assunto a proprio nume tutelare. 
Ben presto il carattere strumentale dell’operazione era emerso fra gli studiosi. Non a caso un certo sentore, se non di liberalismo, certo di socialdemocrazia emergeva dagli scritti gramsciani, anche se questi erano stati revisionati da Togliatti con l’aiuto di intellettuali di comprovata ortodossia comunista. Non a caso sia Benedetto Croce a proposito delle Lettere dal carcere, sia un suo seguace indocile come Luigi Russo, avevano espresso su Gramsci un giudizio quanto meno comprensivo. Basterà , d’altronde, scorrere la bibliografia che Lo Piparo include nel suo saggio per notare la presenza di studiosi che di Gramsci hanno posto in risalto l’eterogeneità  rispetto alla liturgia staliniana. Vi si trovano, per esempio, Aldo Natoli, Carlo Muscetta, Paolo Spriano e Giuseppe Fiori. Di quest’ultimo aggiungerei all’elenco di Lo Piparo la monografia Gramsci Togliatti Stalin (Laterza, 1991), in cui viene documentato quel contrasto fra l’obbedienza di partito e il dovere della verità , che nell’autore dei Quaderni fu centrale. 
Nelle pagine di I due carceri (sostantivo maschilizzato nel plurale con l’autorevole consenso di Tullio De Mauro) ciò che più conta non è la tesi generale, quanto l’insieme dei personaggi. Soprattutto due: Tania, la cognata di Gramsci, e Piero Sraffa. Essi rappresentano la metà  d’un quadrilatero che presiede al passaggio di impressioni, invocazioni ed ukase fra “dentro” e “fuori” il luogo di pena. I terminali del tragitto sono Gramsci e Togliatti. Tania, che può avvicinare il prigioniero e forse prova amore per lui, ne trasferisce i messaggi a Sraffa, che li trascrive per Togliatti a Mosca. La stessa trafila funziona in direzione inversa. 
Le censure, sia fascista sia bolscevica, trasformano le lettere, rendendole, a tratti, esemplari nell’arte del dire e non dire. Sraffa, intellettuale raffinato, amico di Togliatti ma vigile nei rapporti con il vertice sovietico e apparentemente opaco quanto a ideologia (sarà  «un comunista coperto»?), rappresenta la parte più ardua del rebus. Tania è un interrogativo in forma di donna. Della sua «vita privata», scrive Lo Piparo, «si sa pressoché niente», se non che è «la meno comunista delle sorelle Schucht» (meno di Giulia, la moglie di Antonio, donna dalla psiche delicata, legata come le sue sorelle ai servizi segreti sovietici. Meno ancora si sa di Eugenia, considerata una “bolscevica” integrale). Trascritte e commentate da Lo Piparo, molte delle lettere di Gramsci, pur sottoposte a quegli arrischiati tragitti, conservano un fascino inquieto. 
Non sapremmo, costretti alla brevità , quali scegliere tra le missive. In quella datata 27 febbraio 1933, Lo Piparo mette in rilievo la dichiarazione, da parte del prigioniero, della «propria estraneità , filosofica anzitutto, al comunismo»: e infatti sarà  espunta da Togliatti nell’edizione del ’47 delle Lettere dal carcere. Ce n’è una del 14 novembre 1932 in cui il prigioniero comunica la sua decisione di divorziare da Giulia, madre dei suoi figli. Segna il massimo dell’emotività  epistolare, esprimendo il doppio ruolo interpretato da quella donna nell’animo del recluso: è sua moglie ma, nota Lo Piparo, «è la Russia sovietica». 
L’eco di un’altra lettera aleggia nel libro. La scrisse nel 1928, durante il processo Gramsci, l’alto esponente comunista Ruggero Grieco. Indirizzata a Mosca, dove risiedeva Togliatti, e poi spedita a Gramsci nel carcere di San Vittore, s’intrattiene sui casi del comunismo nel mondo. All’intellettuale sardo non sfugge però di essere lui il protagonista di quei fogli. Vi si sottolinea il ruolo centrale che egli ha svolto nel Pci. Il giudice istruttore del processo non mancherà  infatti di osservare: «Onorevole, lei ha degli amici i quali certamente desiderano che rimanga un pezzo in galera». Un «atto deplorevolissimo» Gramsci avrebbe sempre giudicato la lettera di Grieco. 
Nel complesso, quella tracciata da Lo Piparo è la parabola di un comunista a sé stante, di cui il partito volle reprimere ansie e anticonformismi. Il trattamento a lui riservato dopo la morte, con l’edizione revisionata dei suoi trentatré Quaderni (in una lunga postilla finale del volume emerge la possibile esistenza di un quaderno poi scomparso, il trentaquattresimo: per mano di chi?) resta un promemoria della perfidia di Togliatti. Quegli scritti – così si sarebbe espresso il segretario del Pci il 25 aprile 1941 – «possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione»: solo così il partito li darà  alle stampe. Dopo non essersi troppo adoperato per liberare il suo ex-segretario dalle carceri fasciste, il Pci decise in ritardo di ricordarsi di lui onorandone la memoria. Ma l’interpretazione di Lo Piparo è, a questo riguardo, molto netta: un Gramsci libero, in era fascista, non avrebbe avuto lunga vita: «Un plotone di esecuzione o un attentato erano a portata di mano». Su questa linea è la conclusione dell’autore dei Due carceri di Gramsci: proprio perché opportunista, Togliatti salvò Gramsci. Al che non si sa bene che cosa replicare. A volte, in tempi politicamente atroci, c’è più verità  in un paradosso che in cento professioni di fede.

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