L’altra Calabria nel mirino dei clan
CAULONIA (REGGIO CALABRIA) – Sarà un caso, o forse no. Ma tre attentati nel giro di una settimana contro chi si occupa, direttamente o indirettamente, di migranti son davvero troppi. Se a questo si aggiunge che oggi ricorre l’anniversario della rivolta di Rosarno, il quadro si fa ancor più fosco. Specie in Calabria dove tre indizi generalmente fanno una prova e nulla osta a pensare che ci sia un unico disegno criminoso. Perché a queste latitudini il tasso (lo spread verrebbe da dire visti i tempi, ma chissà perché questo non viene mai calcolato…) di criminalità è ai massimi storici. E chi si oppone alla tracotanza mafiosa vien messo a tacere. O quantomeno intimidito.
Riscatto
Goel, biblicamente “il riscattatore”, colui che dà futuro. E quelli dell’omonimo consorzio di cooperative della Locride in tutti questi anni un futuro han cercato di darlo. In una terra celebre più per i riscatti pagati all’Anonima sequestri che per il riscatto sociale. Una «comunità di liberazione», la definisce il suo presidente, Vincenzo Linarello. «Il nostro impegno nasce nel 1996 al fianco di Giancarlo Bregantini, allora vescovo di Locri (oggi presidente della commissione Cei per pace e giustizia sociale ndr), che ci affidò la pastorale sociale del lavoro. Goel venne ufficialmente fondato nel 2003 con una mission precisa, il cambiamento socio-economico della Calabria». Una terra bella e dannata, la Calabria. «Ma una terra anzitutto da amare, pregiudizialmente – osserva Linarello – senza tendenze manichee ma con la capacità di decodificare. Perché oggi la Calabria è incastrata in un sistema ricattatorio. Un progetto di precarietà che genera dipendenza, e dunque controllo di voti e risorse pubbliche. E i manovratori non sono solo i clan, ma anche quel reticolo di massoneria deviata che tesse le fila, che impacchetta voti, da vender poi al miglior offerente ad ogni tornata elettorale». Un sistema apparentemente insormontabile. «A meno che non si avvii un percorso di liberazione collettiva dei bisogni – sottolinea marxianamente Linarello – per questo siamo nati, per questo ci definiamo “comunità di liberazione sociale”, per affrancare i calabresi, intanto dal giogo elettorale, quella logica del do ut des, dello scambio favore versus voto, che è l’architrave del potere massonico-mafioso». Fare società , dunque. Attraverso l’imprenditoria collettiva. «Perché la cooperazione sociale è una realtà che, se correttamente praticata, ha una valenza politica, culturale, economica fortissima. In Calabria non possiamo permetterci il lusso di proclamare solo buone intenzioni, bisogna, immediatamente dopo, realizzarle». Oggi Goel è un sistema di 14 imprese sociali che si estende dalla Locride alla Piana di Gioia. Una realtà che lavora nell’ambito dei servizi socio-sanitari, nella multimedialità , nei servizi ambientali, nel campo del turismo responsabile. «Abbiamo lanciato il primo marchio etico di alta moda in Italia, “Cangiari”, che dà lavoro a tante donne che tessono al telaio, fanno i ricami manuali, portando l’artigianalità tessile calabrese all’avanguardia della moda avvalendoci a Milano anche di uno show room adibito in un bene confiscato alla ‘ndrangheta». C’è poi Goel Bio, la cooperativa sociale agricola che riunisce produttori della Locride e della Piana offrendo qualità dei prodotti nel rispetto dell’etica del lavoro. «Un patto etico tra produttori a cui abbiamo garantito un prezzo alla fonte di 40 centesimi al chilo, un costo equo proprio per evitare quella stortura di prezzi che è il ventre molle dell’egemonia mafiosa nelle campagne, come Rosarno ci ha insegnato».
Infine, l’integrazione multietnica. Tanti i progetti realizzati, tanti i migranti accolti da Goel con l’ausilio dei comuni della Locride (Caulonia, Riace, Stignano). Come il ristorante multietnico, e laboratorio d’inserimento professionale per minori stranieri non accompagnati, a contrada Frauzzo, lungo la provinciale che da Caulonia conduce alla Marina. Qualche giorno fa la malavita ha provato a mandarlo in fumo, collocando e facendo esplodere nottetempo una bomba. «Un atto che ci sprona a continuare più che mai le attività di accoglienza degli immigrati, per sottrarli alla morsa della criminalità e guadagnarli all’integrazione e allo sviluppo». Perché alla violenza mafiosa si risponde in un solo modo: ignorando e disprezzando le regole non scritte che essa impone a livello sociale. Dunque, delegittimandola. Per cui il ristorante aprirà lo stesso. Anzi, in anticipo rispetto al termine prefissato. Appuntamento a febbraio, la ‘ndrangheta si rassegni.
Acquaformosa, il borgo meticcio
L’accoglienza qui in Calabria non è racchiusa solo sulle alture della Locride o in comunità all’avanguardia come Progetto Sud di don Panizza a Lamezia (anch’essa vittima di un attentato nella notte di Natale). Ma si estende anche 200 km più a nord. Sui monti imbiancati del Pollino. E in questo rigido inverno la neve è arrivata anche ad Acquaformosa (Firmoza in arbereshe), a 700 metri di altitudine. Da centinaia di anni qui la popolazione custodisce usi, costumi, tradizioni della natia Albania. Immigrati arbereshe di una volta e migranti di oggi. Famiglie di profughi (dal Ciad, Nigeria, Armenia) che convivono in un meticciato sociale che dà linfa ad un borgo svuotato dall’emigrazione interna. Qualche anno fa persino i nonni decisero di iscriversi in prima elementare, affinché le scuole non chiudessero per sempre. L’input lo diede il sindaco, Giovanni Manoccio (Pd), lo stesso che qualche mese dopo decretò (con tanto di cartelli stradali e un decalogo comunale) «Acquaformosa, primo comune deleghistizzato», contro il virus dell’intolleranza e la «cultura della razza padrona» che la Lega diffonde.
Manco a dirlo, è stato proprio Manoccio ad intraprendere la strada del progetto Sprar offrendo la residenza ad alcune famiglie di asilanti. «L’arrivo dei rifugiati ha portato non solo lavoro per gli operatori sociali che si occupano di accoglienza – ci dice – ma anche nuovi studenti, circa venti, che con la loro iscrizione hanno allontanato il timore di dover chiudere lo stesso istituto scolastico e il relativo accorpamento con scuole di città più numerose».
Oggi il paese si prepara ad ospitare altri migranti in fuga da guerre e persecuzioni. «Arriveranno due famiglie egiziane di religione copta e una famiglia siriana. Speriamo di accoglierli al meglio come già abbiamo fatto con gli altri profughi». E le case vuote del centro storico di Acquaformosa son pronte a riaprirsi. Perché come recita il primo articolo del decalogo anti-Lega: «Noi non togliamo le panchine agli immigrati… ma le dotiamo anche di cuscini».
A due anni da Rosarno
In questo clima surreale, tra rifugiati che arrivano e bombe che esplodono, Rosarno ricorda oggi i due anni dalla rivolta del 2010. A dire il vero un atto intimidatorio c’è stato anche qui nella Piana. È accaduto martedì scorso in contrada Bosco su un terreno di proprietà dell’assessore comunale ai Lavori pubblici, Totò De Maria, a cui son state tagliate una ventina di piante kiwi. Insomma, pessimi auspici. Il flusso di migranti stagionali per la raccolta è diminuito rispetto agli anni precedenti. Ma lo stato dell’arte non è mutato. Oltre 200 dormono per terra in un rudere abbandonato (l’ex Pomona) senza luce, acqua, e tanto degrado. E a poco sono valse le lamentele della sindaca, Elisabetta Tripodi (Pd): «Abbiamo riaperto il campo di accoglienza il 17 dicembre, un intervento finanziato esclusivamente da noi perché la Regione ha detto che non intende sostenere oneri finanziari». Ma i (vecchi) container della Protezione Civile non bastano ad ospitare un numero così alto di stagionali. «Qui come in tutte le altre realtà agricole calabresi – ci spiega Massimo Covello, segretario regionale della Cgil – non si sono registrate significative e strutturali inversioni. Sarà per effetto della drammatica crisi economica, oltre che per la costante di un mercato del lavoro, ormai da tempo sottratto alla gestione pubblica e democratica, ma in un’area strutturalmente fragile come la Calabria, tanto in agricoltura quanto nell’edilizia, sono in forte aumento lavoro nero, sfruttamento, maltrattamento e lesione dei diritti». Oggi doppio appuntamento pubblico. Una “FestAssemblea” nella zona industriale di San Ferdinando per parlare di immigrazione e di crisi, «che investe tutti, i braccianti ed i piccoli produttori, gli operai e i disoccupati». E disoccupazione per i migranti vuol dire, nell’Italia della legge Bossi-Fini, clandestinità se non trovi occupazione entro sei mesi.
«Intanto nelle nostre campagne – osserva il Coordinamento Africalabria che organizza – i raccoglitori africani continuano a vivere a centinaia in condizioni disumane, mentre i profitti degli agrumi, dei kiwi, dell’olio, a causa dei supermercati, vanno ai grandi gruppi che ci strozzano, imponendo prezzi stracciati alla fonte». In serata, sull’altra sponda calabrese, a Caulonia un concerto bandistico, «un modo per rispondere con la nostra compostezza, e il massimo di unità di azione, al vile attentato di questi giorni» commenta Ilario Ammendolia (Pd), sindaco della cittadina jonica. «Il messaggio aggressivo dell’attentato è lampante. E altrettanto chiara la firma mafiosa, perché la pianificazione dell’atto presuppone un’organizzazione articolata che è tipica delle cosche. Anche a Riace un paio di anni fa venne colpito il ristorante multietnico. Perché la solidarietà confligge con la violenza. E in questa società , dove crescono ingiustizia e precarietà , alla mafia fa comodo un’immigrazione declinata come neoschiavismo. Quel che noi contrastiamo, dando asilo ed ospitalità ai rifugiati (quasi 150 dall’Africa centrale e dal Pakistan) con processi includenti, restituendo loro la dignità di persone, anzitutto». La stessa dignità degli africani di Rosarno, due anni fa. Da non dimenticare, per guardare avanti.
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