by Editore | 18 Gennaio 2012 8:42
NEW YORK — Non è uno sciopero di Internet come vogliono far credere i suoi promotori, ma di certo l’America che va in Rete non aveva mai visto niente di simile: per tutta la giornata di oggi la popolarissima enciclopedia online Wikipedia e molti altri siti, da Reddit a Boing Boing, verranno oscurati, mentre altri grandi operatori del web, pur non partecipando alla serrata, trasformeranno la loro home page in una sorta di manifesto di protesta contro le leggi antipirateria all’esame del Congresso: norme considerate liberticide dai protagonisti della comunicazione digitale.
Ieri è scesa in campo anche Google: dopo aver scritto, assieme a Facebook, eBay, Aol, Twitter e Yahoo! una lettera aperta ai leader del Parlamento di Washington, chiedendo loro di rinunciare al varo delle norme che dovrebbero andare in votazione a partire dalla prossima settimana, la società di Mountain View ha comunicato che stamani sulla sua home page comparirà un link che notifica agli utenti la sua radicale opposizione alla legge in discussione.
Il braccio di ferro sulla protezione del copyright è, insomma, diventato una guerra a tutto campo tra Hollywood e la Silicon Valley: da un lato i giganti della cinematografia, l’industria musicale, i produttori di contenuti televisivi (e anche gli editori), decisi a difendere il loro patrimonio intellettuale saccheggiato dai siti pirata, con un danno stimato in 58 miliardi di dollari nel solo 2011; dall’altro i grandi operatori di Internet che, al di là degli appelli ideali alla libertà d’espressione, temono di subire pesantissime limitazioni se entrerà in vigore una legge che li obbliga a bloccare preventivamente il transito di materiale «proibito» sui loro siti.
I parlamentari repubblicani e democratici che hanno proposto lo Stop Online Piracy Act (Sopa) alla Camera — che ne ha per ora rinviato l’esame, mentre al Senato il Pipa (Protect Intellectual Property Act) dovrebbe andare in votazione il 24 gennaio — sostengono che queste reazioni sono esagerate. Quelle norme, infatti, in teoria prenderebbero di mira solo i siti-canaglia stranieri che si appropriano di film e brani musicali senza pagare diritti d’autore. Con le nuove regole, però, i provider americani di Internet che non bloccano preventivamente il transito di questi contenuti potrebbero essere denunciati e diventerebbero corresponsabili del danno patrimoniale. Per gli operatori, a cominciare da Google, Bing e dalle reti sociali, sono, dunque, norme ben più stringenti rispetto al Digital Millennium Copyright Act, la legge oggi in vigore, che garantisce loro l’immunità per le violazioni del copyright, presumendo la buona fede dei provider e chiedendo loro solo di eliminare dai siti il materiale proibito, una volta ricevuta la relativa notifica.
Insomma, un vero scontro di titani, nel quale la lobby dello spettacolo, assai più ricca e radicata a Washington di quella di Internet, ha condotto all’inizio un’offensiva imponente, conquistando un vasto consenso parlamentare che, però, ora sta svanendo sotto i colpi della controffensiva della Silicon Valley. Il mondo di Internet, infatti, ha mobilitato milioni di utenti, invitandoli a bombardare di mail e telefonate i loro parlamentari, mentre anche il sarcasmo della stampa cinese, che ora accusa l’America di costruire barriere censorie, viene usato come arma contro il Congresso.
Così, anche se i parlamentari repubblicani e democratici favorevoli alle nuove norme rimangono, almeno sulla carta, una larga maggioranza, la Camera è già in pausa di riflessione, mentre al Senato alcuni leader hanno chiesto un rinvio del voto per studiare una serie di modifiche. La svolta sabato scorso, quando tre esperti della Casa Bianca hanno ufficializzato su un blog presidenziale la loro opposizione a una normativa che, hanno scritto, persegue un obiettivo giusto — la lotta alla pirateria — con uno strumento sbagliato: una legge rigida e invasiva, potenzialmente liberticida.
Il giorno dopo, l’editore globale Rupert Murdoch, appena sbarcato su Twitter, ha digitato un messaggio di fuoco: in 140 caratteri ha accusato direttamente Obama di proteggere i criminali e Google di essere a capo della pirateria. Un messaggio di spropositata durezza, che non ha giovato alla causa degli editori: ieri i rappresentanti della Camera di Commercio Usa, e della Motion Picture Association of America, le due lobby più potenti scese in campo contro la pirateria, sono divenuti molto concilianti, riconoscendo che bisogna evitare che le nuove norme danneggino eccessivamente il mondo di Internet.
Comunque finisca questo scontro durissimo e prolungato, due elementi stanno emergendo: il Congresso Usa legifera su Internet — ormai un elemento centrale della vita economica, sociale e politica del Paese — senza avere, per esplicita ammissione dei suoi membri, una conoscenza approfondita di ciò che si muove nel mondo digitale. In quest’ultimo, poi, alle proteste civili di chi intravede rischi liberticidi, si sovrappongono gli assalti di frange radicali come i ribelli di «Anonymous», fiancheggiatori di «Occupy Wall Street», che cercano di colpire i capi delle grandi imprese della comunicazione con azioni di guerriglia online, come la pubblicazione di indirizzi e numeri telefonici privati di questi manager, nonché dell’identità dei loro familiari. Atti potenzialmente violenti, che nessuno scisma culturale provocato dal generational divide di Internet può giustificare.
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