La rabbia monta al casello

by Editore | 24 Gennaio 2012 8:46

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ANAGNI (FROSINONE)
«Chi si è arricchito con la liberalizzazione dei trasporti? Quelli in giacca e cravatta, che lavorano nelle grandi piattaforme della logistica, che ci tengono per il collo». M.C. non ha bisogno di un megafono per farsi ascoltare davanti al casello autostradale di Anagni, una settantina di km a sud del Grande raccordo anulare. Siamo in provincia di Frosinone, dove il mondo del lavoro è più simile a Caserta che a Roma, dove la deregulation e il turbocapitalismo selvaggio mietono vittime silenziose, ormai da tanti anni.
M.C. non è un padroncino, ma un autista dipendente di una grande compagnia di trasporti. Ascolta quello che raccontano i suoi compagni davanti al casello, e poi con chiarezza ti spiega come funziona l’85% della nostra logistica, il trasporto su gomma che ieri si è bloccato in tutta Italia: «Nella filiera che c’è dietro quel mazzo d’insalata che compri al supermercato ci sono due tipi di persone che oggi sono a rischio povertà : il contadino che l’ha prodotta e noi autisti di camion che l’abbiamo trasportata. Chi sta in mezzo, chi fa da mediatore tra produzione e trasporto si è arricchito, grazie al mercato divenuto selvaggio; è per questo che oggi sono qui». Due lavoratori, il contadino e l’autista di camion, abituati alla fatica fisica, schiacciati dal sistema dei trasporti aperto alla liberalizzazione già  da anni, dove non esistono più tariffe minime o limiti di licenza. Legati a vita alle piattaforme della logistica, ai grandi distributori, come il Mof di Fondi, a poche decine di chilometri dal casello oggi chiuso ai camion. Insomma, quel modello che tanto piace al governo Monti. Ed è guardando da vicino il concetto di filiera e di logistica – vero cuore dell’economia globalizzata – che si intuisce dove la tensione sta crescendo e chi sono i nuovi padroni d’Italia.
Il blocco dei Tir ha colto di sorpresa tutti. Fino a domenica sera nessuno poteva immaginare lo scenario che si stava preparando. La rivolta degli autisti e delle aziende di trasporto è partita dopo un fitto e sotterraneo passaparola, attraverso i social network, le mailing list, gli sms. La scintilla è scattata quando il blocco previsto e organizzato dai principali sindacati di categoria – che non sono coinvolti nel fermo in corso in queste ore – è stato rinviato di sessanta giorni: «A quel punto è arrivata la rabbia – spiega C.S., autista di Tir – ed è partita la catena su internet, velocissima». Spontaneismo, ribellione, senza ancora una strategia, puntando ad arrivare a venerdì con il trasporto italiano paralizzato. Davanti al casello di Anagni, uno dei tanti blocchi nel Lazio, non si vedono capi o leader. Non ci sono portavoce, parla chi ha voglia di raccontare, senza gerarchie apparenti.
S.R., una trentina d’anni passati sui camion, parte dalla fine, dall’aumento del diesel che sta colpendo duramente chi già  si trova in forti difficoltà : «Fino a qualche mese fa il 50% del costo di un trasporto – racconta – se ne andava in combustibile; oggi la percentuale è salita al 70%». In quel 30% rimanente devono entrare i costi di manutenzione, il pedaggio autostradale, il profitto dell’impresa e, soprattutto, gli stipendi degli autisti, padroncini o dipendenti che siano. E qui è vera macelleria sociale, da quando l’apertura del mercato del trasporto ha creato una concorrenza feroce. 
Come funziona ce lo spiega M., una trentina d’anni, nato in Marocco e autista di Tir in Italia da diverso tempo: «Lavoravo per un grosso trasportatore, mi pagava il giusto, circa 2.500 euro al mese. Mi chiama e mi dice: senti un po’, ora ho questo gruppo di autisti romeni che chiedono 1.700, con una disponibilità  di 30 giorni su 30. Tu che fai?». Se il salario a fine mese diminuisce, ufficialmente non risulta nessun cambiamento: «Spesso le buste paga sono false – raccontano molti autisti – con cifre superiori a quelle realmente erogate». 
Da qualche anno è stato introdotto il limite di 14 mila km al mese come distanza massima percorribile da un singolo autista. La concorrenza dura, però, porta a trovare ogni espediente per lavorare di più: «In un mese faccio anche 20 mila km – spiega M. – per poter mantenere una paga decente». Ogni autista ha una card che registra il chilometraggio percorso, inviando tutti i dati ad un database centrale. E anche qui la via italiana alla liberalizzazione sa trovare le soluzioni migliori: «Sei controllato se usi la tua tessera – spiega un altro autista – ma sai quanti conducenti riescono ad avere due smart card da usare? Non è impossibile andare oltre i limiti di legge».
Nel presidio ad Anagni c’erano anche i piccoli padroncini, con quattro o cinque camion da gestire: «Nei rapporti con i centri di distribuzione – spiegano – non esiste neanche un contratto scritto, tutto è deciso a voce, informalmente». Ogni mattina partono le aste per i trasportatori, decine di chiamate per trovare chi viaggia di più chiedendo di meno. Un mucchio selvaggio, dove, alla fine, a comandare è la vecchia italica cosca. Nominare la parola mafia fa allontanare per un attimo tutti gli autisti. Poi, qualcuno si fa coraggio, capisce che forse ora tutti non hanno più nulla da perdere: «Quando sei in difficoltà  si avvicinano, ti offrono prima protezione, ti danno i soldi con tassi da usurai». Poi decidono i prezzi, mediano con i distributori, risolvono problemi. «Qui a protestare con noi non li vedi i camorristi, i mafiosi – spiega M.C. -; per loro questo sistema è una pacchia, con il mercato selvaggio guadagnano come non mai». Per loro questo sistema Italia, fatto di deregulation e capitale selvaggio, è una sorta di grande Eden.

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