La provincia di Herat torna agli afgani ora anche l’Italia studia l’exit strategy

by Editore | 21 Gennaio 2012 12:29

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HERAT – I militari dell’Afghan National Army sono impettiti e orgogliosi, schierati sul piazzale di Camp Zafar. Qualcuno muove le labbra seguendo le parole dell’inno nazionale: «Afghanistan, terra di pace, terra della spada, dai figli coraggiosi». La caserma del 207esimo corpo d’armata offre uno sfondo perfetto: sotto le folate gelide in arrivo dall’Hindu Kush la bandiera nero-rosso-verde sventola, quella azzurra della Nato scende. Le forze armate occidentali fanno un passo indietro: perché il tempo della spada diventi quello della pace, la provincia di Herat torna responsabilità  degli uomini di Kabul. E’ una tappa indispensabile nel processo di transizione, che equivale ai primi passi della exit strategy italiana.
Nell’agosto scorso è tornata sotto controllo afgano la sicurezza nella città  di Herat, ora, grazie anche al lavoro del contingente italiano, è considerata abbastanza stabile da passare di mano l’intera provincia, con l’eccezione di tre distretti che il presidente Hamid Karzai ha voluto far restare nelle mani dell’Alleanza atlantica: Shindand, a sud del capoluogo, Obeh e Chist-e-Sharif, più a est. Sono zone ancora “calde”, dove il movimento degli “insurgent” non è sotto controllo. Ma con il passaggio della provincia di Herat, due distretti di quella di Badghis, a nord, e uno di Ghowr, a est, il cuore della zona a responsabilità  italiana segue le tappe previste. E il processo va avanti nell’intero Afghanistan. Adesso, dicono all’Isaf, il 44 per cento della popolazione afgana è affidato alle autorità  di Kabul. Con la prossima tappa, sarà  il 64 per cento, e tutto sarà  concluso entro il 2014, secondo la tabella di marcia della Nato.
Ma che cosa cambia, in concreto? «Cambia la responsabilità . In pratica, cambia poco», dice Luciano Portolano, generale della Brigata Sassari e comandante del quadrante Ovest: «Gli afgani decidono, noi siamo qui a supporto. Già  ora facciamo solo operazioni richieste da loro, con le truppe Ana e la polizia». In sostanza la Nato continuerà  a offrire risorse militari quando quelle afgane saranno insufficienti: interventi di aviazione, evacuazione di feriti, assistenza ad alta tecnologia. In altre parole, è presto per pensare al ritiro dei soldati, 4200 italiani su circa 130 mila dell’intera Nato, a meno che la tragedia che ha coinvolto i militari francesi imponga ripensamenti e nuove scadenze. Anche il segretario dell’Alleanza Anders Fogh Rasmussen lo ha ricordato: attenzione a non lasciare un vuoto. Insomma, secondo il comando Isaf ovest, «la possibilità  per la coalizione di ridurre il proprio ruolo dipenderà  dalla minaccia», cioè sarà  legata alla «maturità  della leadership afgana». Di partenze per ora non si parla.
«L’impegno italiano continuerà  dopo il 2014, con la cooperazione allo sviluppo e la collaborazione economica», garantisce l’inviato della Farnesina Francesco Maria Talò. La sicurezza è solo uno dei tre “pilastri” fondativi dell’intervento occidentale: per garantire gli altri due, sviluppo e governabilità , la presenza militare sarà  ridotta gradualmente, per trasformarsi in “consulenza” tecnica. Gli stati maggiori americani hanno persino individuato quali unità  forniranno i “consiglieri” per il dopo 2014. E le trattative di pace vanno avanti, i Taliban hanno aperto un ufficio di rappresentanza nel Qatar e pur continuando gli attacchi ormai ammettono apertamente la disponibilità  alla riconciliazione. Al Wall Street Journal i leader integralisti hanno confermato la buona volontà , mettendo le mani avanti: «Non tutti i militanti saranno d’accordo».
Ziarat Shah Abed, generale del 207esimo e “padrone di casa” a Camp Zafar, conosce l’italiano a sufficienza per parlare chiaro: «Ormai possiamo fare da soli, se è necessario. Ma preferiamo operare accanto ai nostri amici». Quanto ai Taliban, «sono buoni guerrieri, ma hanno scelto la parte sbagliata». Nel piazzale della caserma autorità  e militari accolgono con deferenza Ashraf Ghani, ex rivale di Karzai per la presidenza e oggi delegato per la transizione dal capo dello Stato. Non vuole parlare di trattative con il fronte integralista ma è convinto che «il processo di transizione aiuterà  i negoziati, perché toglie ogni senso alla lotta». E sottolinea: «Dobbiamo avere fiducia. Ricordiamoci che solo sei mesi fa nemmeno questo passaggio di competenze era immaginabile».

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