La odiano tutti, infatti non si tocca

by Editore | 13 Gennaio 2012 8:43

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E ora la patata bollente passa ai partiti, con il rischio che l’inamovibile porcellum diventi il simbolo della loro paralisi e autoconservazione. Bersani dice di «non poter certo gioire» ma assicura che da oggi il Pd sarà  «impegnatissimo» sul fronte della riforma. Quando in tarda mattinata arriva la decisione della Consulta, le forze politiche fanno a gara per dichiarare l’incrollabile intenzione di cambiare la legge elettorale in parlamento. Ma la sentenza della Consulta, di fatto, smina il campo al governo Monti. Antonio Di Pietro, fra i promotori dei quesiti, non si tiene: «La Consulta ha voluto impedire al popolo italiano di scegliere quale legge elettorale vuole. Si tratta di una scelta che non ha nulla di giuridico e di costituzionale ma è politica e di piacere solo al capo dello Stato e alle forze inciuciste. Una volgarità  che rischia di diventare regime se non viene fermata dal popolo con le elezioni. È tempo di scendere nelle piazze e di passare alla protesta attiva per non assistere più a questo scempio di democrazia». «Insinuazione volgare e gratuita, che denota solo scorrettezza istituzionale», è la durissima nota del Quirinale, cui fa eco una valanga di critiche a Di Pietro, soprattutto da parte Pd. 
Partito che però si trova nella scomoda posizione di non aver prima osteggiato i quesiti, poi sposati, e quindi oggi di dover tornare alla posizione di partenza, affidare la riforma al parlamento. «Il Porcellum può aprire solo un drammatico solco tra cittadini e classe politica». I democratici hanno presentato la loro proposta a inizio estate (in fretta, mentre al proprio interno impazzava la polemica fra il referendum Parisi e quello Passigli), ma il mix fra maggioritario e proporzionale – che gli antipatizzanti chiamano «modello ungherese» – non suscita entusiasmi, neanche al proprio interno. E un sistema più proporzionale, a cui Dario Franceschini, ha ‘aperto’ già  a dicembre, avrebbe il merito, se così può definire, di piacere all’Udc. 
Di fatto, tolto di mezzo il «pungolo» del referendum, si torna alla casella iniziale. Il presidente della commissione affari costituzionali del Senato Carlo Vizzini ha annunciato che martedì prossimo metterà  il tema all’ordine del giorno per « valutare subito gli effetti della decisione negativa della consulta, in modo che il Parlamento possa decidere in tempi brevi come procedere». Ma nella parte destra dell’emiciclo, ritrovata la sintonia fra Pdl e Lega sul voto di Cosentino, i segnali vanno in tutt’altra direzione. Per Bossi «la migliore legge è quella che c’è perché non si impiegherà  tanto tempo ad andare al voto». Berlusconi quasi sfotte: «Ho sempre ritenuto che l’attuale legge sia una buona legge», al più «può essere migliorato il premio di maggioranza in senato» che «è stato attributo pro-quota alle Regioni. Io credo che il Parlamento debba fare un intervento per portarlo a premio nazionale». Ma il senato è eletto su base regionale, un premio di maggioranza su base nazionale sarebbe incostituzionale. Quindi alla fine il messaggio è: con il porcellum manebimus optime. Anche se i delfini di Pdl e Lega si sbracciano a dire il contrario: bisogna cambiarla, altrimenti «si offenderebbe il sentimento democratico dei cittadini» (Maroni); «la sentenza della Corte non sottrae il Parlamento dalla possibilità  e opportunità  di restituire ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti» (Alfano). 
Tutte chiacchiere, dice Rosy Bindi: perché il voto su Cosentino ha messo in luce che tra Bossi e Berlusconi «c’è un patto che riguarda anche la conservazione di questa pessima legge, cucita su misura per tutelare le convenienze di Pdl e Lega». d.p.

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