by Editore | 25 Gennaio 2012 8:31
ROMA – «I temi sui quali il governo insisterà sono quelli che il ministro Fornero ha comunicato». Parla da Bruxelles il presidente del Consiglio, Mario Monti, e sceglie non a caso le parole per ridefinire i confini del negoziato con le parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Parla dei temi, il premier, e non delle proposte del ministro, quelle che stavano rischiando di mandare la trattativa al tappeto al primo round. E così compie una doppia operazione: non sconfessa Fornero, anzi la protegge dalle possibili invasioni di campo di altri colleghi (Corrado Passera, in particolare, titolare dello Sviluppo) e, dall’altra parte, viene incontro alla richiesta dei sindacati, della Confindustria e pure del Pd di ripartire da un’agenda condivisa e non dal documento-Fornero, che in molti, peraltro, le avevano sconsigliato di presentare. Punto e a capo. Monti non vuole rotture.
Ora ci vorrà qualche giorno di decantazione prima che le diplomazie si rimettano in moto. La Fornero non ritirerà di certo il suo documento, ma appare improbabile che lo invii (come aveva promesso) alle parti sociali. Ieri ha dedicato quasi l’intera giornata a fare diverse marce indietro (dalla rivoluzione per la cassa integrazione all’ipotesi del contratto unico) e, nello stesso tempo, a venire incontro all’impostazione di Cgil, Cisl e Uil (soprattutto sulla valorizzazione dell’apprendistato). Tutti segnali di distensione. Gli stessi che in questi due ultimi giorni si è preoccupato di lanciare ai leader sindacali e ai vertici confindustriali il ministro Passera.
Perché è lui che in questa fase di tensione con la Fornero è diventato il primo interlocutore sia di Susanna Camusso, segretario della Cgil, sia di Emma Marcegaglia, presidente degli industriali. Passera è il vero ministro “politico” del governo Monti. Conosce bene le dinamiche sindacali, dopo aver gestito, a cavallo tra gli anni Novanta e il Duemila, il processo di ristrutturazione delle Poste; e da banchiere ha visto da vicino debolezze e virtù dell’apparato industriale italiano.
Nelle stanze del suo dicastero si stanno scaricando i primi effetti della recessione: ci sono più di duecento tavoli di crisi aperti per circa 300 mila posti di lavoro a rischio. L’altro ieri – subito dopo l’annuncio della Fornero a Palazzo Chigi di voler superare l’istituto della cassa integrazione straordinaria – i negoziatori al ministero dello Sviluppo hanno cominciato a fare melina non sapendo più se avrebbero avuto ancora a disposizione lo strumento principe per affrontare le crisi aziendali strutturali, non dovute cioè al calo contingente della domanda. Al tavolo di Passera è passata la Fiat di Termini Imerese, c’è la Fincantieri, la Antonio Merloni, la Bat di Lecce e tantissime altre. La cassa straordinaria è indispensabile ai tavoli delle crisi industriali.
E ora, Passera e Fornero cominciano a fare fatica a nascondere i reciproci dissapori. «Posso assicurare che tutti i ministri giocano con grande spirito di squadra: è la nostra regola del gioco», ha detto l’ex banchiere ai giornalisti di prima mattina. Ma qualche ora dopo è arrivata al frecciatina dell’economista piemontese: «Il ministro Passera mi nasconde delle cose che mi riguardano… adesso lo sgrideremo», ha risposto a una senatrice che le chiedeva notizie di un tavolo su mass media e donne aperto al dicastero dello Sviluppo mentre è la Fornero la titolare delle pari opportunità . «Passera sta nel mondo reale, la Fornero è rimasta ancora nelle aule universitarie», diceva ieri sera un industriale uscendo da Viale dell’Astronomia dopo aver partecipato alla riunione del Direttivo della Confindustria.
Ed è proprio in Confindustria che si sta elaborando una sorta di svolta sull’articolo 18: gli industriali (anche i più riottosi come l’ex presidente Antonio D’Amato che sull’articolo 18 andò, alleato con Berlusconi, allo scontro con la Cgil di Sergio Cofferati) si preparano a chiedere non più la riforma della norma dello Statuto che, in caso di licenziamento senza giusta causa, prevede il reintegro nel posto di lavoro; bensì una definizione certa dei tempi entro il quale il giudice deve decidere. Attualmente una causa per licenziamento ingiustificato dura intorno ai sei anni, al termine dei quali l’imprenditore, se colpevole, è obbligato a reintegrare il dipendente. Questo genera incertezza tanto più che nella stragrande maggioranza dei casi alla fine imprenditore e lavoratore si accordano su una transazione economica. Sull’accelerazione dei tempi dei processi è favorevole il governo ma pure i sindacati. Si vedrà se sarà questa la via d’uscita per disinnescare la bomba a orologeria dell’articolo 18. Intanto l’incontro tra sindacati e Confindustria per definire proposte comuni è slittato alla prossima settimana. Tempi più lunghi del previsto.
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