La lobby delle auto bianche “Monti ci mangia il cuore non diventeremo dei paria”
«’STI comunisti ce stanno a magnà er core», ringhia “Lupo”, tarda evoluzione antropologica del tassinaro romano di “Zara 87”, celebrato da Alberto Sordi ne Il tassinaro del 1983 dove, bonario, scarrozzava Andreotti che interpretava se stesso. «So’ ancora boni», garantisce l’anziano senatore. Ma qui alla stazione Termini tra gli scioperanti selvaggi, l’ambiente francamente non sembra oggi dei più rassicuranti per chi osa dire: «Ma quali comunisti, questi sono liberisti della Scuola di Chicago!».
Sbarchi in Centrale a Milano dopo tre ore sul nuovo treno “classista” superveloce, dotato di “Salottino-Casta” dell’ancora monopolista Mauro Moretti e plasticamente la scena delle auto bianche bloccate e accatastate non cambia. Ma gli argomenti sì. E anche il gradimento della qualità del servizio: Milano viene dopo Barcellona, Monaco e Colonia. Roma è al ventunesimo posto prima di Lubiana.
Qui in Centrale sono un po’ più sofisticati, anche se arrivano gli echi di episodi di guerriglia metropolitana contro i “crumiri”. «Monti farà la fine di Friedman», proclama Luca, tassista milanese laureato, ex impiegato in una casa editrice. Ma che fine ha mai fatto Friedman, che ci ha lasciati in età non proprio giovanissima? «Ha fallito su tutto, come dimostra la crisi globale del capitalismo liberista e anche sui taxi».
In effetti, il premio Nobel per l’economia, autore di “Capitalism and Freedom”, già nel 1962 fece un caso di scuola del mercato delle auto pubbliche. Un mercato che sembra semplicissimo – domanda e offerta – ma che è infarcito di regolamenti, lobby, mafie, fino a farne di fatto un insulto al libero mercato. In mezzo mondo hanno provato ad affrontare il problema e in molte grandi città in vari continenti ci sono riusciti. Da noi il tentativo di Pierluigi Bersani del 2006 è fallito ed è costato al centrosinistra la poltrona di sindaco di Roma. Ora mina il governo dei professori.
Un ex organizzatore lirico, un ex vigile urbano, un ex magazziniere della Rinascente, un ex operaio, trovi ex mestieri di tutti i tipi nella rabbia sul piazzale della stazione Centrale, come se l’auto pubblica fosse ormai l’ultima spiaggia di un paese senza lavoro e con bassi redditi. Uno di loro sventola un libro con un titolo nero su una fascia gialla intitolato “Taxi, driver in rivolta a New York”, autore Biju Mathew, docente di Economia ed effetti della globalizzazione alla Rider University di New Jersey. Il libro racconta la protesta che unì a New York contro Rudolph Giuliani trentamila tassisti di ottanta etnie diverse. «Che farà Monti? – arringa i colleghi uno dei rivoltosi – Getterà le basi di un nuovo oligopolio simile a quello dei broker capitalisti di New York, che affamano poveracci in arrivo dal resto del mondo con bassi salari e turni da schiavi».
L’incubo apocalittico dei ribelli della stazione Centrale è pressapoco questo: Della Valle, Montezemolo, Tronchetti, Benetton e magari la Lega delle Cooperative comprano mille o diecimila licenze. Vanno da Marchionne e ordinano mille o diecimila Fiat o Chrysler a un prezzo scontato del 50 per cento, unificano le revisioni e le riparazioni in una sola officina con abbattimento di costi stratosferico. Vanno alle Generali o all’Allianz e prendono un pacco di assicurazioni da far paura a prezzi d’affezione. Così avremo un altro super-oligopolio miliardario con i vecchi capitalisti o con una nuova classe di tycoon che non vorrà più conducenti milanesi o antichi immigrati pugliesi o napoletani, ma paria asiatici a basso prezzo come a New York.
«Ma ci vede? – fa uno più anziano meridionale – Le sembriamo forse notai o farmacisti da un milione di reddito? O una corporazione da disarmare, come ha detto Monti? Si disarmano gli eserciti nemici, non i lavoratori».
I taxi vanno liberalizzati, ma non sono il male assoluto nel paese che per l’Alitalia, salvata a suo tempo dal banchiere e neo ministro Corrado Passera, ha sospeso le regole antitrust e speso quattro miliardi sulle spalle dei cittadini italiani.
Per condurre un taxi in Italia ci vuole una licenza, la licenza è limitata a un’area territoriale circoscritta, i turni di lavoro sono rigidi e ciò non consente di far fronte ai picchi di domanda, come quello di questo fine settimana a Milano per la moda. Le tariffe sono fissate e nessuno può fare sconti, semmai al contrario si può truffare qualche turista inesperto, come capita quotidianamente a Fiumicino e a Malpensa.
Un caso da manuale di concorrenza perfetta, tanti produttori, tanti acquirenti, basse barriere all’entrata, diventa così l’emblema della “rendita distorsiva”. Andrea Boitani e Angela Bergantino, due economisti che hanno studiato la questione partendo dalla riforma della Nuova Zelanda sostengono che dove si sono liberalizzate le licenze si sono migliorati i requisiti qualitativi ed è stato introdotto l’obbligo di frequentare corsi di aggiornamento. Le tariffe sono scese e la domanda è aumentata in Olanda, in Svezia, in Irlanda, in Australia. E anche a Londra, dove sono stati creati servizi alternativi soltanto su prenotazione telefonica.
«Non ascoltate i soloni del capitalismo – replica Christian, quasi quarantenne acculturato – lo sapete che in Nuova Zelanda la deregulation ha costretto a fondare compagnie di sole donne per trasportare altre donne di notte, dopo casi di stupro di driver maschi e mascalzoni?» Ecco, forse Christian si dà la zappa sui piedi, se ci dimostra con la Nuova Zelanda che la liberalizzazione fa nascere persino attività diciamo di nicchia per le signore che sfidano la notte.
Resta il mistero greco del prezzo della licenza. Fino a 210mila euro a Milano e anche a Roma. Perché uno investe una cifra del genere, che dovrà restituire per tutta la sua vita se l’ha chiesta a prestito, per avere un reddito ufficiale medio di 8 mila euro o poco più? E qui si incrociano monopolio o “rendita distorsiva”, come dicono gli economisti, e evasione fiscale. Un tassista in una grande città come Roma o Milano guadagna davvero 2 mila euro al mese o in realtà più del doppio, con un’evasione almeno al 50 per cento? E quei 200 mila euro forse investiti non sono il prezzo per godere di un’evasione fiscale di fatto autorizzata da norme e regolamenti? «Pensi quello che vuole – ci liquida un tassista che in giacca tweed sembra un lord inglese a Milano in Corso Italia – ma io non permetterò a Monti né a nessun altro di espropriami il valore della mia licenza, che non solo è il mio Tfr, quello che hanno i lavoratori dipendenti, ma il futuro agli studi di mia figlia».
Il faro politico del tassista romano, dimenticata l’era diccì e la corporazione buona cui Andreotti fece avere un anticipo dei rimborsi della benzina, rimane con molte perplessità il sindaco ex fascista Gianni Alemanno. A Termini alcune braccia si alzano oggi nel saluto mussoliniano. In Centrale invece, La Russa se lo filano pochi («Chi? Quello al servizio di Ligresti?»). Nella Milano da bere i tassisti erano molto socialisti. I più anziani ricordano ancora con rimpianto Tognoli e Pillitteri. Se arrivavi a Linate all’ora di cena ti beccavi quasi sempre quello che ti recitava: «Torna a casa in tutta fretta, c’è il Biscione che ti aspetta», l’antico slogan della prima tivù berlusconiana. Poi molti si misero con An e non pochi andarono a sinistra, dopo «l’arrogante sindaco Albertini».
Qualcuno l’anno scorso ha votato per Pisapia sindaco. Bossi ora è con loro, anche se nelle sue valli e nelle roccaforti delle piccole città nessuno va in taxi.
Ma i driver milanesi sono smarriti. Come Emilio, il più sfigato tassista di sinistra. Ha comprato una licenza un mese fa per 180mila euro, facendo un mutuo di mille euro. Ancora festeggiava la caduta di Berlusconi e la licenza, sperando di guadagnare cinquemila euro al mese, quando Monti gli ha detto: guarda che ti disarmiamo, la tua licenza è carta straccia. È come se avesse comprato una casa e gli avessero detto: ci dispiace per te. È crollata.
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