La linea d’ombra del comando
Quest’arte ruvida, che in democrazia è sempre guardata con un po’ di diffidenza, quasi fosse arte legale ma non del tutto legittima. C’è diffidenza perché l’immaginario democratico è colmo di miraggi: là dove governa il popolo ognuno è idealmente padrone di sé,e fantastica di poter farea meno del comando. Nella migliore delle ipotesi parliamo di responsabilità , che del comando è la logica conseguenza, in qualche modo l’ornamento. Ma la responsabilità è obbligo di ciascuno, governanti e governati. Il comandoha un ingrediente in più, un occhio in più: indispensabile. Ancora una volta dal mare, dunque, ci giunge in questi giorni un esempio di cosa sia questo mestiere che impaura ed è al contempo profondamente anelato: il mestiere di guidare gli uomini nelle situazioni-limite, quando tutto, salvezza o disastro, dipende da chi è al comando, sempre che qualcuno ci sia. L’esempio lo conosciamo ormai: ce l’ha dato Gregorio De Falco, capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Nella notte del 13 gennaio fu lui a intimare, al comandante Schettino, di tornare subito a bordo anziché cincischiare frasi sull’inaudita trasgressione appena commessa: l’abbandono del posto di comando sulla nave, prima del salvataggio di passeggeri e equipaggio. Un peccato imperdonabile in mare.
Difficile dimenticare il tono di quell’ingiunzionea rispettare le regole: incaponito, incorruttibile. Una voce analoga s’era udita a Capodanno, inattesa, quando le Guardie di finanza diedero la caccia agli evasori fiscali di Cortina, ricordando che la legge non solo esiste ma può essere applicata, per castigare chi vitupera lo Stato esattoree al tempo stesso ne profitta – le parole sono di Mario Monti – «mettendo le mani nelle tasche degli italiani onesti, che pagano le tasse». È come se da tempi immemorabili non avessimo ascoltato voci simili. Come se la chiamata che intima, stronca imperiosamente egoismi, tergiversazioni, fosse la cosa che più ci manca.
Manca d’altronde non solo da noi ma anche fuori, in Europa, dove un marasma senza precedenti incancrenisce perché è assente, ai vertici dell’Unione, l’ occhio in più che dia l’ordine di trasformare il coordinamento dei singoli soccorsi in salvataggio di tutti.
Ma in Italia la questione è incandescente, perché sono in tanti a reagire alla nuova severità dello Stato con la fuga o lo scompiglio. Non che sia mancata, per anni, la voce dei padroni. Ma non era intimazione, la loro: era intimidazione, al tempo stesso strillata e sterile. Abbiamo udito l’urlo di chi s’indigna e l’urlo di chi dall’alto dei propri scranni insulta, lancia ukase, grida menzogne per difendere gli interessi propri o dei propri clan. Per oltre un decennio abbiamo vissuto in mezzo a indistinte cacofonie: e vediamo in questi giorni, con le rivolte antistataliste che straripano, la potenza accumulata dalla cultura dell’urlo. L’intimazione stentorea di autorità emblematiche come il comandante di Livornoo le Guardie di finanza è di natura differente, ci sorprende come ladro di notte, come bisturi che ricuce ma resta pur sempre lama che offende. Abbiamo visto in de Falco un eroe ma non è un eroe.
Il suo modo d’essere dovrebbe essere la normalità : è contro un muro di norme indiscusse che dovrebbero sbattere i battelli ebbri senza comando né legge che metaforicamente ci rappresentano. Che impazzano addosso alle coste per fare inchini a amici complici in irresponsabilità , e impunemente s’avvolgono nella propria incuria come in un manto.
Chi ha letto Joseph Conrad sa le grandezze e i segreti fardelli del comando. Quasi tutti i suoi romanzi ruotano attorno a questa vocazione, che mette alla prova e decide chi sei, se vali oppure no. Anche qui, niente di eroico. Ecco il protagonista di Tifone: «Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan, aveva, per quanto concerne l’aspetto esteriore, una fisionomia che rispecchiava fedelmente l’animo suo: non presentava alcuna distinta caratteristica di fermezza o di stupidità ; non aveva caratteristiche pronunciate d’alcun tipo; era soltanto comune, insensibilee imperturbabile». Il comando non è solo imperio della legge, rule of law. C’è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile. Invece ce n’è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un’emergenza, edè qui che servono le forze congiunte del comando, dell’imperio della legge e del carisma. Torniamo ancoraa Conrad, quando narra la nostra Linea d’ombra: d’un colpo scorgiamo innanzi a noi «una linea d’ombra che ci avverte che la regione della prima giovinezza, anch’essa, la dobbiamo lasciare addietro». Il protagonista del racconto affronta a quel punto la massima prova esistenziale: l’esercizio del comando. Alcuni soccombono: è il caso di Lord Jim, che tutta la vita pagherà il prezzo – in dolore, rimpianto, vita d’angoscia – del peccato originale commesso quando abbandonò la nave. La linea d’ombra, in Italia, è come se non la scorgessimo mai. C’è qualcosa di ostinatamente minorenne, nel nostro rapporto con l’autorità , la legge, lo Stato.
Stentiamo a capire una cosa, dell’ordine dato in nome del bene pubblico: il comando è quello che ci protegge dall’esplosione dell’urlo scomposto, dal caos propizio allo Stato d’eccezione. Fu con l’urlo che Hitler s’affacciò al mondo: la democrazia di Weimar non era stata capace di comando. Kurt Tucholsky, scrittore veggente, descrisse fin dal ’31 quel che nel futuro dittatore più spaventava: «Non l’uomo in sé, che non esiste. Ma il rumore, che egli scatena».
Stentiamoa capire soprattutto in Italia, perché siamo da poco una nazione e ogni comune, ogni corporazione, usa urlare più che dirigere. Fellini descrisse questa cacofonia anarcoide – era il ’79, dilagava il terrorismo – nell’apologo Prova d’Orchestra. Il tema cruciale era il comando: in che condizioni è esercitato, come degenera in urlo, e perché degenera.
L’Italia benpensante accolse il film con enorme diffidenza, sospettò nell’autore buie propensioni fascistoidi. Fellini le aveva messo davanti uno specchio, perché contemplasse i suoi vizi, e gli italiani voltarono la faccia sdegnati. Il film non perse mai da noi un odore di zolfo che altrove non ebbe. «Tutto è prova d’orchestra», disse il regista. E sulla pellicola capimmo perché la prova falliva: ogni violinista, flautista, clarinettista, pensava agli affari suoi, alcuni addirittura erano armati e ciascuno aveva a fianco un sindacalista tutore.
Qualcosa di simile accade a Monti, assalito da proteste quando si sforza di ammansire l’ego di corporazioni, lobby, clan semimafiosi (le grandi mafie suppongo siano in attesa: non ancora toccate, fanno quadrato attorno ai propri referenti, ne cercano di nuovi, sfruttano alla meglio i malcontenti di chi si sente ferito dal bisturi). Nonostante questo clima di sbandamento il Premier resta popolare, nell’Italia smarrita e infine conscia della crisi. Lo aiutano le virtù del comando: la gravitas, il rispetto meticoloso delle istituzioni, l’autorevolezza che accresce l’autorità dandole sostanza. Lo aiuta la vocazione a tenere i conti, e a chieder conto.
Non dimentichiamo la fine del film di Fellini: il direttore d’orchestra che non ha saputo comandare esplode in urla scomposte, mescolando vocaboli italianie parole d’ordine naziste. «Estrema pazienza e estrema cura», questo il comando secondo Conrad: oltrepassata la linea d’ombra, sempre possiamo mancare la prova, sottrarci al dovere di portare la nave sana e salva in porto. Ecco perché la via di Monti è così stretta.
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