La guerriglia del “download” che spaventa il Congresso Usa

by Editore | 21 Gennaio 2012 12:49

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Più che una ritirata, è stata una rotta, quella del Congresso americano lanciato contro la “pirateria” in Internet. Poche volte, anche nella storia di una democrazia diretta sempre molto sensibile agli umori del pubblico, si era vista una fuga tanto precipitosa. Democratici e repubblicani hanno abbandonato le loro stesse proposte di legge battezzate con gli sfortunati acronimi di SOPA e PIPA, lasciando la sensazione non di uno scontro di interessi, ma di una collisione fra due mondi e due culture.
Con l’oscuramento del supersito Megaupload che costa, dicono a Washington, 500 milioni di mancati profitti per la pirateria contro l’industria dell’intrattenimento ordinato dalle autorità  americane e con la furibonda risposta degli hacker di Anonymous che hanno bloccato vari siti ufficiali del governo, dal Dipartimento di Stato allo Fbi, dalla associazione dei produttori di Hollywood al ministero della Giustizia, la “Kulturkampf”, la guerra per il controllo della Rete ha visto la prima battaglia campale della sua grande guerra finire con la disfatta di chi avrebbe voluto controllarla. Ma se la potenza della controffensiva lanciata da milioni di utenti, e da almeno 75 mila siti nel mondo, contro i nove parlamentari che avevano sponsorizzato le leggi, è stata schiacciante, la guerra continua e ha conosciuto soltanto un cessate il fuoco.
I principi opposti di libertà  di accesso e di rispetto dei diritti d’autore stanno andando – ed è questa la ragione dell’urto storico in atto – non nella direzione degli interessi commerciali di una lobby, quella del cinema o della musica, contro un’altra, quella dei motori di ricerca come Google o come i social network come Facebook, che pure sono aziende “for profit” anche loro. La violenza dell’urto, per ora placata, nasce dalla realizzazione che le due leggi spinte attraverso il Congresso andassero a colpire direttamente il cuore della Rete. In un linguaggio confuso, troppo generico e «mal formulato», come ha detto Mark Zuckerberg il creatore di Facebook, la cosiddetta norma anti-pirateria, la Pipa, di fatto avrebbe dato ai governi l’arma per chiudere qualunque sito fosse stato accusabile di violazione di materiale protetto. Praticamente tutti.
Era, ha scritto il fondatore di Wikipedia, la prima e ormai essenziale «enciclopedia del mondo» Jimmy Wales, che aveva volontariamente oscurato le proprie pagine, «un attacco alla architettura stessa di Internet», molto più di un’operazione di censura e di sorveglianza politica alla cinese. Sarebbe bastato un link, un collegamento da un sito all’altro, un video messo online da YouTube senza autorizzazione per spalancare il cuore della Rete all’intervento della polizia del copyright. Immaginare che universi ormai immensi come appunto YouTube, Twitter, Facebook, Google, Reddit, potessero sterilizzare le proprie pagine purgandole dal materiale proibito avrebbe significato costringerli a chiudere.
Il voto sul Protect the Internet Providers Act, la legge PIPA è stato rinviato a un futuro vago, dal leader della maggioranza democratica al Senato Harry Reid e in pratica accantonato per mesi, forse oltre quelle elezioni presidenziali e parlamentari di novembre. I quattro superstiti candidati repubblicani hanno già  tuonato contro la “pirateria” in nazioni lontane, e le loro sono vuote minacce retoriche per una platea di xenofobi che adorano gli slogan contro il resto del mondo. 
Ma il nodo rimane e dovrà  essere sciolto. «Il sudore, la fatica, il diritto a fare guadagni e profitti sul proprio lavoro e sui propri investimenti non può essere lasciato in balia di chiunque voglia approfittarne senza pagare dazio» ha scritto al Congresso Mike Nugent, il direttore di “Creative America”, la punta di lancia della lobby antipirateria. «Chi pretende di soffocare Internet oggi non ha capito che questo strumento ha ormai cambiato per sempre il mondo in cui l’umanità  attinge all’informazione e alla conoscenza» gli hanno risposto da Harvard. Non sono posizioni facilmente, o in maniera indolore, conciliabili con i classici compromessi parlamentari e i toni in Rete assumono i caratteri di una reciproca “jihad”.
L’equivoco fra industria e cultura, fra spirito del tempo nuovo e legittimo utilitarismo è la trappola nel quale parlamentari come Rubio della Florida, superconservatore, ma anche Leahy del Vermont, progressista, sono caduti, spinti dal mondo della produzione artistica. Ora, tutti e nove gli sponsor della legge e i candidati hanno capito di avere toccato un filo dell’alta tensione e hanno ritratto in fretta la mano. Per i promotori del diritto d’autore, sgominati dalla furibonda reazione del web, è già  forse troppo tardi per cambiare la prassi, l’ideologia e la matrice del libero scambio che animano la Rete. Ma non rinunceranno, non possono rinunciare. Lo ha fatto scrivere sulle pagine di Wikipedia il fondatore: attenzione, «non è ancora finita». La guerra santa continua.

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