La grande crisi vista da Tremonti: neutralizzare la «bisca finanziaria»
«Una narrazione a metà tra diario e cronaca, di cose viste e vissute nel corso dei cinque anni che vanno dall’esplosione della crisi finanziaria, nell’estate 2007, a oggi». Così l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, presenta il suo ultimo saggio nell’introduzione, della quale pubblichiamo qui un ampio stralcio. Tremonti svela e spiega «le riflessioni e le affermazioni fatte nel chiuso dei vertici internazionali» in questi anni drammatici. E tra il materiale inedito che l’ex ministro rende pubblico nel libro c’è anche la lettera che inviò il 29 settembre 2008 a Christine Lagarde, allora ministro dell’Economia francese, per proporre alla collega d’oltralpe — oggi direttore del Fondo monetario internazionale — di cambiare le attuali «regole contabili suicide», costituire «un pool di fondi per evitare maggiori crisi di liquidità », e prendere misure per «combattere la speculazione». L’Arca di Noè fu costruita da dilettanti. Il Titanic è stato costruito da professionisti. La prima, quella dell’Arca, è l’immagine millenaria della salvezza. La seconda, quella del Titanic, è l’immagine contemporanea del disastro. Il primo disegno, il disegno fantastico, ha funzionato e può ancora funzionare perché riporta l’uomo a un creator spiritus: «Fatti un’arca di legno di cipresso». Il secondo disegno, il disegno tecnico, può funzionare ma può anche fallire. E spesso fallisce se è fatto solo dall’uomo per l’uomo. E soprattutto fallisce se è fatto dalla parte peggiore dell’uomo: dal «gene egoista», matrice di un processo che prende la forma ideologica del darwinismo sociale applicato all’economia, moderna versione dell’homo homini lupus.
Oggi l’ideale campo d’azione dell’homo homini lupus è il mercato finanziario. Alla base del mercato finanziario c’è un’ideologia potente e dominante che tende ad azzerare la parte migliore della natura umana, riducendo la vita nell’economia e l’economia nella finanza, un mostro che si alimenta divorandoci e infine divorandosi. Solo alcuniveri credenti lo umanizzano, il mercato finanziario, e per avvicinarcelo ce ne forniscono una rappresentazione quasi umana, antropomorfa, parlando per esempio e con imprescindibile rispetto di market sentiment (sic!). È, tutto questo, ben diverso dal mondo dell’indagine sulla natura e le cause della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, la bibbia del mercato. Ricchezza certo, ma anche nazioni. Queste sono state per secoli il contenitore dei valori civili propri di comunità basate insieme sulla responsabilità morale e sulla struttura politica. All’opposto abbiamo oggi un tipo di ricchezza che via via tende a distruggere le nazioni, fino a distruggere se stessa, nella forma di una doppia distruzione, tanto politica quanto economica.
A ridosso della globalizzazione, e per effetto primo della globalizzazione, andando indietro più o meno di venti anni, e da qui poi estendendosi nella Rete, ha preso forma e forza un nuovo tipo di capitalismo. Non, come in Marx, un capitalismo chiuso nella dialettica e nel conflitto tra il capitale costante e il capitale variabile, il primo fatto dalla somma dei mezzi di produzione e di circolazione delle merci + il capitale circolante, e il secondo costituito dalla forza lavoro. Ma qualcos’altro. A sorpresa, a partire dalla globalizzazione, in questa nuova e contemporanea storia, il nucleo finanziario iniziale del capitale circolante ha accumulato in sé tanta forza da generare un nuovo, mai visto prima, tipo di capitale: il capitale dominante, la base del superpotere transnazionale del mercato finanziario, ciò che esprime e configura, nella sua forma ultima, l’odierna dittatura del denaro. Un tipo di capitalismo, questo, che è tuttavia a sua volta tanto dominante quanto morente, perché ormai incapace di sopravvivere alla sua basica finzione costitutiva. Sviluppato certo su quella scala industriale e globale che oggi è tipica della tecnofinanza, ma in realtà un processo non molto diverso da una magia alchemica folle e mortale, come in Faust e Mefistofele. Perché, in quale modo ha preso avvio e si è sviluppato questo processo degenerativo e distruttivo, attraverso quali meccanismi fisici e politici, materiali e mentali, reali e simbolici, etologici e pratici? E cosa è ancora possibile fare per evitarlo? Un fatto è certo: la crisi che ora vediamo e che viviamo non è venuta, non viene dal nulla, non dal caso, non da un’oscura e imperscrutabile maledizione. Viene dall’azione dell’uomo.
Per rappresentare la crisi, per come si è sviluppata, si sviluppa e si svilupperà , fin dal principio non ho trovato immagine più efficace di quella composta dalla sequenza di mostri che ti arrivano addosso in un videogame: arriva un mostro, lo batti, ti riposi; ma subito dopo arriva un secondo mostro, più grande del primo. E così via. Quando nel 2006 ho ipotizzato un nuovo 1929, ho fatto solo un’ipotesi. Che purtroppo si è verificata, se pure con varianti, perché la storia non si ripete mai per identità perfette. Dopo il 1929 è venuto il 1933, quando è stato toccato il fondo della Grande Depressione, quando la crisi è passata dall’artificiale della finanza al reale della vita dei popoli (per capirlo, basta leggere Uomini e topi o Furore di Steinbeck o ricordare cosa è successo in Germania: l’arrivo al potere del nazionalsocialismo). Il fatto che quella fosse una crisi esplosa dentro società ancora relativamente povere, mentre questa esplode dentro società nell’insieme più ricche, a tratti opulente, non ne riduce il rischio di impatto, non lo rende meno violento. Anzi.
Per reazione alla crisi possono infatti venire conflitti, sommovimenti sociali e ribellioni e, con questi, nuovi movimenti, capaci anche di generare forme politiche aberranti. Come è già stato nella storia e come mille segni oggi annunciano. Quando, manovrando il mercato finanziario e gli spread, il potere agisce sulla manopola del volume della paura, la paura di perdere tutto, dal lavoro al risparmio; quando davanti alla crisi il potere, proprio il potere liberale costituito in nome del libero mercato, chiede che per pericolo e necessità sia proclamato lo «stato d’eccezione»; quando per conservare i suoi interessi la finanza arriva all’ultimo stadio, mettendosi a governare in presa diretta facendo uso di tecnici che, loro sì, sono del tutto diversi dal popolo e perciò sanno cosa è bene per il popolo; quando arriva il Fondo monetario internazionale a ridurre la sovranità nazionale; quando è evidente che questo processo, essendo basato sulle stesse meccaniche che hanno causato la crisi, non la interrompe ma all’opposto la prolunga e la aggrava; quando, pur con tutte le sue colpe, chi è eletto non conta mentre conta chi non è eletto e questi conta proprio perché non eletto; quando si immagina di togliere ai popoli il diritto di voto per sostituirlo con il sorteggio, così da costituire la Camera perfetta, la Camera dei popoli; quando si tagliano le radici della democrazia ragionando in termini di aut aut, pensando, imponendo che i deficit pubblici possano essere curati proprio con corrispondenti dosi di deficit democratico, allora è chiaro che è poi difficile fermarsi o fermare il conflitto sociale, è chiaro che risulta poi difficile, come popolarmente si dice, rimettere il dentifricio nel tubetto; quando il crepitare degli spread fa vacillare la fiducia in noi stessi e lo spirito dell’Unione europea, allora è chiaro il rischio che emergano qua e là , e a partire proprio dalla civilissima Europa, i primi segni di un tipo nuovo di fascismo: il fascismo finanziario, il fascismo bianco.
È probabile che oggi ancora, dopo il 2007, si vada verso un nuovo 1933. Dopo il 1933 le cose andarono bene negli Stati Uniti. Non così in Germania, dove invece la crisi fu malamente gestita. Oggi siamo comunque, in Europa, ancora a Hoover e ai suoi epigoni ed eredi, più che a Roosevelt. Il primo, il presidente della paura. Il secondo, il presidente della speranza. Come al tempo del New Deal, abbiamo un rendez-vous con il nostro destino. Come è stato detto, le persone, i popoli fanno sempre la cosa giusta, dopo avere esaurito tutti i possibili errori!
Un ultimo errore sarebbe quello di subire questa crisi, pensando di poterla così superare. Così facendo, anzi così non facendo, sempre restando dentro lo stesso videogame, arriverebbe un nuovo mostro. Attendere la stabilizzazione del mercato finanziario, la mitica «ripresa», oppure una grande salvifica inflazione, oppure una guerra semplificatrice, sarebbe un ultimo e fatale errore, perché non si farebbe altro se non spianare la strada al prossimo mostro. Non si farebbe altro se non preparare la prossima crisi, una crisi ancora più grave. La crisi finale.
L’uscita di sicurezza c’è. Solo che è nascosta nel nostro passato prossimo. Dobbiamo e possiamo avere il coraggio per cercarla, per comprenderne la chiave d’apertura, infine per seguirla. Il coraggio per lasciare la via sbagliata, la via che più o meno tutti oggi — Stati, governi, popoli — stanno ancora seguendo, ancora vittime del primo mito del XXI secolo, vittime del mercatismo degenerato nell’assolutismo del mercato finanziario. Mentre sale il diagramma della paura, siamo ancora in tempo per la speranza, come è stato appunto nel 1933 contro la Grande Depressione. Siamo in tempo per riportare ordine, rimettere a sistema quello che ora si chiama mercato o mercato finanziario, ma che in realtà non è più un sistema economico ma un magma caotico. Possiamo farlo anticipando ed evitando, non continuamente subendo, la cascata dei fenomeni in atto, ragionando ex ante e non ex post, agendo sulle cause e non sugli effetti. Possiamo farlo partendo dalla separazione radicale e fondamentale tra economia produttiva edeconomia speculativa, tutelando la prima e neutralizzando invece la «bisca finanziaria», pianificandone una lunghissima moratoria, come nel biblico sabbatico, o avviandola verso un’ordinata procedura fallimentare, in modo che perda o paghi solo chi deve perdere o pagare e non noi; riportando la moneta nel potere degli Stati, in nome e per conto dei popoli, così tra l’altro stabilizzando i bilanci pubblici; ripristinando l’impero della legge; avviando grandi piani di investimenti pubblici; soprattutto mettendo il cuore, la ragione e lo spirito al posto del saggio di interesse, il pane al posto delle pietre, l’uomo al posto del lupo.
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