La filologia vivente di Antonio Gramsci
Coniugando «una solida erudizione in numerosi terreni della storia del pensiero con un’intelligenza ironica e intransigente e con uno spirito arguto venato appena da un soffio di malinconia», egli «fu anche il maggior interprete di Gramsci».
Di questa attività e della sua tagliente e asciutta prosa polemica, presente in tanti articoli giornalistici, dà conto la raccolta di scritti (Affermare la verità è una necessità politica, Scritti di Antonio Santucci, Università degli Studi di Salerno – Rubbettino, pp. 224, euro 23) che un giovane ricercatore dell’ateneo salernitano, Diego Giannone, ha voluto meritoriamente curare e pubblicare per mettere a disposizione dei lettori il pensiero di uno studioso scomparso troppo presto e ancora poco conosciuto (anche a causa di una sua naturale ritrosia al presenzialismo culturale: il suo lavoro lo svolse prevalentemente nelle austere stanzette dell’Istituto Gramsci, dal quale fu cacciato in seguito allo scioglimento del Partito comunista italiano). Si tratta di testi scritti dagli anni Ottanta ai primi del Duemila e comparsi su «l’Unità », «Rinascita», «Avvenimenti», «Liberazione» e, in prevalenza, su «La Rinascita della sinistra», che Diego Novelli e Adalberto Minucci vollero rilanciare alla fine degli anni Novanta, anche grazie al contributo di idee e proposte di Santucci. Gli ottanta scritti del volume (che include pure la trascrizione di quattro puntate radiofoniche andate in onda nel dicembre 1987 su RadioTre con il titolo Quattro temi gramsciani) spaziano da Gramsci a Marx, da Garin a Bobbio, dalle polemiche con Montanelli e Bettiza alle recensioni di Toland, Diderot, Marià¡tegui, dalla critica mordace ai fautori nostrani ed europei della cosiddetta «terza via» (D’Alema, Blair, Giddens) alla descrizione dell’Italia di Craxi e Berlusconi, di cui Santucci prende a emblema i libri di Bruno Vespa o le trasmissioni di Italia 1, fino alle risentite polemiche contro il revisionismo storico della destra e della «sinistra».
Esempio di revisionismo «progressista» è, secondo Santucci, la trasformazione di Gramsci in un innocuo ed ecumenico pensatore «democratico», nettamente distinto dall’«agitatore» comunista degli anni torinesi, che ebbe la fortuna di essere recluso nel carcere di Turi evitando così di conoscere la brutale ortodossia togliattiana-staliniana che avrebbe isolato e perseguitato l’eretico eroe della libertà . In un articolo del 30 aprile 1999, scritto in occasione dei novant’anni di Eugenio Garin, Antonio Santucci ricorda l’importanza che ebbe lo studioso dell’umanesimo e del rinascimento nel sottolineare, nonostante l’assenza di sistematicità nell’opera gramsciana, la profonda unitarietà e intima coerenza del pensiero e dell’azione di Gramsci prima e durante il carcere. «Questa precoce preoccupazione – scrive Santucci – nei confronti di improvvide operazioni, intese a costruire l’immagine di due Gramsci con al centro la cesura dell’arresto, appare oggi di forte attualità . (…) In effetti, soprattutto per gli intellettuali postcomunisti fautori del passaggio del Pci a una nuova formazione politica, doveva apparire troppo ingombrante la figura del Gramsci organizzatore dei Consigli di fabbrica, membro dell’esecutivo del Comintern, segretario di un Partito comunista non immune da settarismo, tatticamente disponibile a larghe alleanze sul fronte antifascista, ma ben distante dalle strategie liberaldemocratiche».
Ma il «revisionismo», secondo Santucci, ormai sconfina con il totale abbandono della storia secolare, teorica e pratica, del movimento operaio, sia nella sua versione anarchica, socialista, comunista sia in quella più tradizionalmente socialdemocratica. Esempio di questo abbandono e di un approdo definitivo verso i lidi del liberalismo/liberismo, sono i teorici della «terza via» come Anthony Giddens o i sostenitori della «società del rischio» come Ulrich Beck. Per tutti e due, ad esempio, è assolutamente impossibile e improponibile che il movimento operaio si organizzi su scala mondiale e cerchi di contrastare la globalizzazione capitalistica provando a proporre un’alternativa che non sia la «libertà rischiosa» di una somma atomizzata di «individui» ma un progetto di radicale emancipazione collettiva in vista di un superamento del capitalismo. Recensendo nel giugno 1999 il volume di Anthony Giddens, La terza via (prefazione di Romano Prodi), Santucci ricorda che la nozione di una «terza via» tra capitalismo e socialismo fu impiegata da Croce nel 1943 e che anche Enrico Berlinguer la utilizzò per proporre una via al socialismo che in qualche modo superasse l’esperienza sovietica e quella socialdemocratica. Ma il sociologo inglese si spinge ben oltre, ribadendo che oggi «nessuno ha ormai più alternative al capitalismo» e che, quindi, bisogna prendere atto del «definitivo discredito del marxismo»: per Giddens «il comunismo e il socialismo sono defunti» («Goodbye Mr. Socialism», direbbe Toni Negri). Anche se, fa notare Santucci citando lo stesso Giddens e commentandolo causticamente, «critici di questa tendenza vedono la terza via come un neoliberismo riscaldato. Siamo con loro».
Vorrei concludere ricordando la dimensione internazionale dell’attività scientifica e politica di Santucci. Egli fu un punto di riferimento per centinaia di studiosi gramsciani sparsi per il mondo, sempre generoso nel dispensare consigli e sostenere iniziative editoriali che facessero conoscere il «marxismo espansivo» di Antonio Gramsci. Un vero e proprio mediatore culturale, capace di «tradurre» gli aspetti più complessi dell’elaborazione gramsciana e di farli arrivare nei contesti più diversi, dalle sezioni comuniste o dalle aule scolastiche e universitarie ai convegni specialistici. In questa opera di mediazione pedagogica va ricordata la determinazione con cui volle la ristampa delle Lettere dal carcere di Gramsci, che furono pubblicate e diffuse come supplemento de «l’Unità » nel 1988 arrivando a superare il milione di copie vendute.
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