La fabbrica dei ragazzi

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Sono passati quattro anni da quell’infernale tragedia. Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, sulla linea 5 dell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino, sette operai vengono investiti da una fuoriuscita di olio bollente, che prende fuoco. Muore subito il primo Antonio Schiavone. Nei giorni successivi le altre sei persone ferite gravemente e bruciate vive: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino. Degli operai coinvolti nell’incidente, l’unico superstite e testimone oculare si chiama Antonio Boccuzzi: lavora nella Thyssen da 13 anni, è un sindacalista della Uilm. Da subito i lavoratori denunciano l’inadeguatezza delle misure di sicurezza nello stabilimento e le pesanti colpe dell’azienda tedesca, che sarà  condannata dal tribunale. Oggi lo stabilimento di Torino della ThyssenKrupp – chiuso nel 2008 – non esiste più. Giandomenico Curi, regista e scrittore, ci ha dato in anteprima questo rap che sarà  portato in scena coi musicisti. 
(strumentale)
5 dicembre 2007. Thyssen-Krupp di Torino.
Il turno di notte è alle dieci di sera. 
Una pizza veloce, il buio, il freddo, la nebbia, la corriera.
Lo zainetto con il cambio, telefonino e caffè. 
Non mi va di entrare stasera, non so perché.
Passo con il mio tesserino: Ragusa Giovanni,
operaio, reparto finiture, ormai son quasi due anni.
Cioè faccio il jolly, giro dove servono rimpiazzi.
La fabbrica dei ragazzi. 
È così che la chiamano tutti qua intorno.
Siamo rimasti noi, i più giovani. E intanto scendo al forno
dove c’è il turno della linea cinque, come ogni notte.
A parlare della fabbrica che chiude, delle lotte,
della juve, di bruno che sta male,
del lavoro che non c’è. E tra poco è Natale.
Duecento se ne sono già  andati,
i più esperti. Anche noi siamo operai specializzati.
Ma nessuno ci vuole. Hai voglia a chiedere in giro.
L’azienda se ne frega, muore un po’ ogni giorno (che tristezza)
e anche Torino se ne frega. Il resto dell’Italia guarda la monnezza
di Napoli, e un governo che galleggia tra panettone e intrallazzi.
La fabbrica dei ragazzi.
Ragazzi un cazzo. Qui si fatica da bestie. C’è rischio e rumore,
concentrazione, lamiere, macchine, fuoco e sudore.
E la fabbrica non si ferma giorno e notte va come un treno
e tu dietro che fatichi e soffri e inghiotti veleno. 
È questo l’acciaio, rotoli anche da settemila chili. 
Eppure tutto questo tra poco finirà 
e noi, i ragazzi, ogni sera siamo lì a chiederci come si fa.
(strumentale)
Mezzanotte passata, dopo il mugugno, il caffé e la sigaretta
salgo alla linea due, a fare quel rotolo che mi aspetta.
Salgo e lì sotto comincia l’inferno quello vero,
quello da cui non ti salvi e porta dritto al cimitero.
Il cimitero di Torino, è lì che sono finiti dopo l’ultimo viaggio
in fila dietro a una fascia blu come a una catena di montaggio.
Li hanno messi insieme, uno accanto all’altro, insieme
hanno lavorato, insieme sono morti, e insieme sono lì.
Perché la gente tra vent’anni, quando non ci saranno più fabbriche, li ricordi tutti e sette così:
Antonio, Rocco, Angelo, Giuseppe, Roberto, Bruno e Rosario, 
tra biglietti di bambini, lumini, fiori, sciarpe, e quello scenario
dei monti lontani e grandi con la neve, la neve 
che a volte aiuta, spiazza, comunque fa la morte più lieve.
E anche qui c’è qualcuno che lavora, invisibile, come sempre a Torino,
un rumore di gru che arriva da dietro ai palazzi.
La fabbrica dei ragazzi.
C’erano tutti alla linea cinque, in otto, un turno pieno
attorno a una bestia di forno più grande di un autotreno
un forno a più di mille gradi, tre vagoni lungo, mai veduto
con l’acciaio dentro che viaggia a 25 metri al minuto.
E i ragazzi che controllano dal pulpito, dietro a un vetro
con Bruno sul trenino a spostare il rullo avanti e indietro. 
Di colpo il nastro sbanda, urta la carpenteria, scintilla,
carta e olio fanno da innesco, adesso il fuoco è un’anguilla
che cammina, un fuoco già  visto, che avanza lento.
Escono per fermarlo con gli estintori, vuoti. E in quel momento
esplode un flessibile gonfio d’olio, passa sul fuoco come un budello
aperto, un lanciafiamme che brucia e uccide, un flagello
di dio che li inghiotte. Si salva solo Boccuzzi protetto dal carrello.
Gli altri no. Sono presi dall’onda di fuoco e divorati, 
scappano, urlano, resistono, si cercano disperati.
Scende fuori di testa un gruista dalla terza campata, 
dice di correre sotto, che la cinque è scoppiata,
che sono tutti morti, bruciati, ma io non ci credo.
Ma quando arrivo è proprio così, quando arrivo e li vedo.
(strumentale)
Sette ragazzi tre funerali tutti diversi. Il primo è il dolore, 
la rabbia, la paura. A Egla, 20 anni, non ha retto il cuore, 
ha detto a Roberto di tornare a casa presto dai bambini
mentre la mamma di Angelo ripeteva al figlio
di non preoccuparsi perché “tra poco saremo di nuovo vicini”.
Solo il padre operaio di Bruno ha gridato “bastardi assassini!”
con la foto del figlio in mano, e continuava a ripeterlo 
“bastardi assassini” anche davanti a telecamere e paparazzi.
La fabbrica dei ragazzi.
Il funerale di Rocco è già  un funerale operaio, proletario
e quando arriva la notizia che è morto Rosario
povero cristo, dopo due settimane d’agonia
qualcuno strappa la corona dei padroni
che se ne vanno dalla sacrestia.
Scappano via, spaventati, scappano come ladri
senza saluti né scorte
adesso che quella fabbrica è diventata la fabbrica della morte.
È rimasta lì, la Thyssen, abbandonata tra la periferia e la tangenziale.
Ma la gente non la vede, non lo sa,
tra qualche giorno è Natale. 
La gente non sa niente della classe operaia, dei morti,
di quei ragazzi ammazzati non se ne sono nemmeno accorti.
La gente ha fretta, deve pensare al Natale, 
come se quello fosse solo un lutto operaio
e non una tragedia nazionale. 
(strumentale)
Rocco, il capoturno, è il primo che vedo in quel finimondo,
telefono e radio bruciati in un secondo.
Cammina senza pelle, senza capelli, non vede niente
muscoli e nervi aperti come un morto vivente.
Non mi vede, ma sente la mia voce sempre più insistente
mi riconosce, dice “avvisa tu mia moglie dille che non è niente”.
Poi barcolla, vorrei prenderlo per mano ma non posso.
Cammina, brucia e si scioglie, una cosa atroce.
E allora lo guido, lo porto fuori piano con la voce.
Ombre, fumo, fantasmi, fiamme, acido, olio, 
altri operai che scendono alla cinque urlando come pazzi.
La fabbrica dei ragazzi. 
Ma adesso i ragazzi stanno morendo. 
C’è Antonio che brucia sul pavimento, 
che ancora grida e solo a guardarlo è un orrore, un tormento. 
E Boccuzzi è lì che urla, si butta, fa di tutto
ma ormai il fuoco l’ha quasi distrutto.
Mi giro, nel fumo qualcuno mi chiama, non vedo nessuno.
“Giovanni Giovanni”, sono loro, Giuseppe e Bruno,
due fantasmi bruciati ma ancora vivi, che continuano a camminare
che cercano la mia voce che non sanno cristo dove andare.
Chiamo Giuseppe e Giuseppe chiama Bruno.
Escono dal fumo, 
vengono verso la voce mia
e solo allora vedo che hanno la pelle scivolata via.
“Giovanni – mi chiede Bruno – sei qui, guardaci in faccia, 
com’è…?”. Non è niente, dico, sei una pellaccia.
Giuseppe mi supplica di parlargli vicino
e poi di dare una mano a sua moglie e al suo bambino.
(strumentale)
Il fatto è che gli operai in questo paese non esistono più 
son diventati invisibili trasparenti come una tribù
separata che esiste solo in fabbrica, maltrattata e malpagata,
rimossa, scomoda, una generazione andata.
La gente non ti vede, dal droghiere, al bar, quando prendi un caffé,
semplicemente credono di poter fare a meno di te.
Di te operaio, brutta parola che non ha più senso in fondo:
non sei più tu che costruisci il mondo.
Anche il lavoro, la fatica, è una parola che non va
lo chiamano competenza, professionalità .
È vero che se sei tu che produci, che esisti, e tieni in piedi la città 
di Torino. Ma non fai parte della modernità .
Fai meglio se ti metti il cuore in pace,
il mondo è di chi consuma e non di chi produce.
Devi consumare di più, farti vedere al centro, da McDonald’s
il giorno per negozi e la notte giù ai murazzi.
La fabbrica dei ragazzi.
(strumentale)
Due compagni di lavoro carbonizzati che vogliono campare
che ti chiedono aiuto ma non sai cosa fare.
E gli parli e li porti piano verso l’uscita
anche se disperi di salvargli la vita.
Due passi e a terra vedo Angelo, Roberto e Rosario:
acido, gas, fumo e fuoco il loro sudario.
Tutti e tre vivi, ma non c’è più niente,
solo cera che si scioglie e olio bollente.
E quella voce che ti cerca, che ti vuole parlare,
non vogliono morire, hanno ancora cose da fare.
Mi siedo accanto a loro, e parliamo insieme con tutti e tre
fino a quando li portano via
adesso che il fumo sta divorando anche me.
Se arrivate a Torino e non avete niente da fare
passate al cimitero, andateli a trovare.
Portategli una sigaretta, una storia, un disegnino colorato a matita
una cosa qualsiasi per renderli visibili,
per tenerli ancora in vita.


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