La crisi del ’29 e quella di oggi
Nel febbraio del 1933 Antonio Gramsci scrisse un commento alla crisi mondiale del 1929-1932 che inviterei a rileggere. È il paragrafo 5 del Quaderno 15, intitolato Passato e presente. La crisi, e potrebbe essere un utile punto di riferimento nella discussione attuale su quella che comunemente si definisce una «crisi finanziaria», cominciata negli Stati Uniti nel 2007 e divenuta progressivamente una crisi economica globale. Mi limito a riprendere alcuni spunti dello scritto di Gramsci che mi sembrano particolarmente fecondi.
Vorrei innanzitutto osservare che quando ci si trova in presenza di una crisi economica di proporzioni mondiali è erroneo e fuorviante isolarne un aspetto o cercarne una causa sola; si deve invece ricostruire un intero periodo storico nel quale le manifestazioni economiche della crisi, che variano nel tempo e si differenziano da Paese a Paese, possano essere spiegate in modo utile a risolverla. In altre parole, è necessario non isolare gli aspetti puramente economici del fenomeno se non per comodità analitica, purché vengano inquadrati in una ricostruzione storica complessiva nella quale si possano individuare gli attori e le strategie necessarie a creare nuovi equilibri e stabilità .
Applicando questo criterio all’andamento della crisi tra il 1929 e il 1932, Gramsci ne individuava l’origine nel contrasto tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica, e perciò proponeva di iscrivere il quadriennio in un periodo storico molto più lungo, caratterizzato dal manifestarsi di quella contraddizione e dalla inettitudine delle classi dirigenti a risolverla nell’unico modo possibile, cioè adeguando le forme e gli spazi della regolazione politica a quelli di un’economia sempre più compiutamente mondiale. Dal 2007 i paragoni fra la crisi attuale e quella del 1929 ricorrono di frequente, ma sono quasi sempre impropri e superficiali, poiché si coniugano con spiegazioni della crisi odierna riassunte in slogan del tipo «la globalizzazione della finanza espropria la politica», oppure con la denuncia dell’enorme crescita delle disuguaglianze redistributive come causa degli squilibri dell’economia mondiale o, infine, con l’accusa alla «speculazione» di creare le crisi dei debiti sovrani. Ma, per fare solo un esempio, come si fa a spiegare con uno o l’altro di quei concetti l’esplosione dei debiti sovrani in Europa quando è del tutto evidente che l’apprezzamento o la svalutazione dell’euro, per non dire dello spread fra i titoli del debito tedesco e quelli del debito di altri Paesi europei, dipendono dalla politica del governo germanico? Rileggere lo scritto di Gramsci può servire, quindi, ad attivare qualche difesa immunitaria contro quelle narrazioni o quanto meno a eliminare gli aspetti contraddittori di ricostruzioni più articolate, in cui però può capitare di ascoltare nello stesso discorso un racconto puntuale del modo unilaterale e aggressivo in cui la Germania ha esercitato la sua leadership nell’Europa dell’euro fino a determinarne la crisi, e spiegazioni della crisi complessiva fondate su un presunto, fatale predominio dell’economia sulla politica.
C’è stato un breve periodo, durante il 2010, in cui le vicende dell’economia mondiale venivano raccontate dai media come guerra delle monete. Anche questa era una interpretazione inadeguata, ma almeno sollecitava le menti a domandarsi: quando è cominciata «la guerra»? chi fa la guerra a chi? E come se ne può uscire? Insomma, era un modo di raccontare le vicende più vicino a una narrazione storica e quindi al senso comune dei cittadini, che vorrebbero essere aiutati a trovare delle spiegazioni plausibili e a individuare delle responsabilità , e non sentirsi oppressi dall’impotenza dinanzi a fantasmi indecifrabili come «l’economia che espropria la politica», la «speculazione internazionale» che minaccia la sovranità degli Stati, e simili. Ma quel periodo è finito proprio quando quell’approccio avrebbe dovuto essere affinato per investigare la crisi dell’euro.
Se il contrasto tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica squassava il mondo già nella prima metà del 900, esso appare ancora più acuto nel periodo attuale, in cui la globalizzazione dell’economia è più estesa, le classi dirigenti imputabili di nazionalismo sono ben più numerose e al tempo stesso sono inclini a un «neomercantilismo continentale» piuttosto che al nazionalismo politico o economico tradizionale.
La chiave di lettura dei loro comportamenti potrebbe quindi ricavarsi dalla ricostruzione dei loro successi e dei loro fallimenti nel governare le interdipendenze e le asimmetrie di potenza che caratterizzano la struttura del mondo da 40 anni. Non mi pare proponibile, invece, il paragone fra la crisi odierna e quella del ’29 sotto altri aspetti. Innanzi tutto, i Paesi protagonisti del conflitto economico mondiale di allora potevano ricorrere alla guerra mentre, per il bene dell’umanità , questa possibilità sembra oggi preclusa. D’altro canto, il numero maggiore dei partner dell’economia mondiale odierna rende ancora più imprevedibili la durata della crisi e il raggiungimento di accordi che generino un nuovo equilibrio come fu quello dei tre decenni successivi alla II Guerra mondiale.
In secondo luogo, un anno dopo aver scritto quel testo Gramsci mise ordine fra le note dedicate all’«americanismo» e individuò nel taylorismo e nel fordismo le leve di un nuovo industrialismo, che avrebbe potuto espandersi mondialmente e sovvertire le strutture antiquate della vecchia Europa. Poteva indicare, così, un nuovo modello di organizzazione delle masse e dell’economia che, diffondendosi nel mondo più sviluppato, avrebbe modificato e reso più controllabile quella contraddizione, con effetti incredibilmente progressivi. Non mi pare che nella crisi attuale si possa ravvisare nulla di paragonabile a cui appellarsi. Appare molto più plausibile, invece, il raffronto con un altro aspetto dell’analisi gramsciana: la stabilità monetaria internazionale come risorsa anticiclica dell’economia mondiale. È l’elemento oggi evocato da quanti auspicano «una nuova Bretton Woods». Naturalmente una moneta o un paniere di monete di riserva negoziato a livello mondiale non potrebbe coincidere con nessuna moneta nazionale e anche questo non consente di prevedere se e quando si potrà raggiungere l’obiettivo.
In conclusione vorrei osservare che le economie nord-atlantiche costituiscono nel loro insieme il più grande aggregato di risorse che potrebbero essere messe a disposizione di un nuovo ordine mondiale. Ma non si vede come potranno concorrere a creare nuovi equilibri e una nuova stabilità senza superare preliminarmente il dualismo fra euro e dollaro, il cui antagonismo è forse la vera causa delle crisi parallele, americana e europea, dell’ultimo decennio.
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