La Consulta: referendum bocciati per evitare il vuoto normativo

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ROMA — I referendum elettorali sono stati bocciati dalla Corte costituzionale per tre motivi: perché intendevano cancellare un’intera legge (e questo non è consentito in materia elettorale), perché in caso di successo avrebbero determinato un pericoloso vuoto normativo (e gli organi costituzionali «non possono essere esposti neppure temporaneamente alla eventualità  di una paralisi di funzionamento») e perché, infine, i quesiti erano poco chiari e in parte contraddittori laddove non palesavano che il fine era quello di rivitalizzare il vecchio «mattarellum», abrogando per via referendaria il «porcellum».
Con la sentenza scritta dal relatore Sabino Cassese — letta e approvata dal plenum presieduto da Alfonso Quaranta — la Consulta ha dunque messo la parola fine all’avventura referendaria promossa da Arturo Parisi (Pd), da Antonio Di Pietro (Idv), da Nichi Vendola (Sel) e da vari comitati che avevano raccolto un milione e 200 mila firme e l’appoggio di un ampio cartello di costituzionalisti. L’obiettivo dei referendari era quello di innescare la «reviviscenza» della vecchia legge elettorale (il mattarellum, 75% maggioritario e 25% proporzionale, cancellata nel 2005 dal Parlamento) e anche su questo ritorno al passato la Corte è stata categorica: «La tesi della reviviscenza di disposizioni a seguito di abrogazione referendaria non può essere accolta perché si fonda su una visione “stratificata” dell’ordine giuridico in cui le norme di ciascuno strato, pur quando abrogate, sarebbero da considerarsi quiescenti e sempre pronte a ridiventare vigenti». Argomenta dunque la Corte: «Ove fosse seguita tale tesi… il ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse» provocherebbe «conseguenze imprevedibili per il legislatore…».
Nelle 25 pagine di sentenza non c’è traccia di osservazioni sui profili di costituzionalità  della legge in vigore perché — osserva la Corte citando se stessa (sentenze 16 e 15 del 2008) — ai giudici, nel valutare l’ammissibilità  dei referendum, «è preclusa “ogni ulteriore considerazione”». Vale la pena ricordare che tre anni fa la Corte segnalò «gli aspetti problematici» della legge Calderoli «con particolare riguardo all’attribuzione di un premio di maggioranza… senza che sia raggiunta una soglia minima di voti».
Oggi però quella bacchettata non si è ripetuta. Ma Stefano Ceccanti (Pd) osserva che «l’atteggiamento della Consulta di doveroso rispetto del Parlamento non va interpretato come una scusa per un’inaccettabile inerzia dei legislatori». E il partito di Pier Luigi Bersani si è già  mosso con una lettera dei capigruppo, Finocchiaro e Franceschini, che si sono rivolti ai presidenti delle Camere per «individuare un percorso condiviso e certo» sulle riforme, a cominciare dalla legge elettorale. Osvaldo Napoli del Pdl, però, già  sente puzza di bruciato: «La fretta messa dai capigruppo del Pd non si spiega se non con il timore, o la speranza, che le urne siano più vicine di quanto si possa immaginare».
La parola, dunque, torna ai partiti in un clima che non è proprio quello della leale collaborazione. Antonio Di Pietro (Idv) mastica amaro: «Prendiamo atto della sentenza e come tale la rispettiamo. Certo è che oltre 100 costituzionalisti la pensavano come noi…». Invece Pino Pisicchio (Api) parla di «motivazione impeccabile» che ha messo in evidenza la mancanza di chiarezza del secondo quesito: «Un monito per i comportamenti dei referendari di domani». Caustico, infine, il commento di Arturo Parisi che ben sintetizza lo stato d’animo prevalente nel fronte referendario sconfitto: «Vuoto normativo? Resta comunque nel nostro sistema un vuoto sostanziale non meno grave e preoccupante. Un vuoto etico e politico».


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