by Editore | 4 Gennaio 2012 7:24
Democrazia, crisi economica, Berlusconi è il sottotitolo di un agile libro di Michele Salvati (Tre pezzi facili sull’Italia, il Mulino, pagg. 130, euro 14)) che riflette su alcuni nodi: le origini vicine e lontane della crisi italiana, il rapporto fra Prima e Seconda Repubblica, le ragioni dell’ascesa al potere di Berlusconi e – soprattutto – del suo lungo predominio. Il bersaglio polemico è dichiarato: circola da tempo, scrive Salvati, «una visione nostalgica, un rimpianto diffuso per la Prima Repubblica e per il centrosinistra» che non riesce però a dar conto delle ragioni del suo crollo. E c’è anche da chiedersi, aggiunge, perché si sia esaurita presto la spinta riformatrice che pur animò, nel passaggio da una fase all’altra, i governi Amato e Ciampi e il primo governo Prodi, cui dobbiamo anche l’ingresso nell’euro. Analisi economica e implicazioni politiche si intrecciano di continuo, e vi sono sullo sfondo i precedenti, ed eccellenti, lavori di Salvati. Vi è anche l’evocazione di un’anomalia collocata nel più lungo periodo: lo stretto rapporto fra la presenza di forze politiche antisistema e un trasformismo che trova (ulteriore) alimento nell’impossibilità dell’alternanza.
L’avvio del ragionamento è dunque ben fondato: «È difficile sostenere che le politiche economiche perseguite nella Prima Repubblica siano state un modello di virtù ed è impossibile negare che ci abbiano lasciato in eredità problemi gravosissimi», a partire dal debito pubblico. Qui però Salvati propone le sue tesi in una “forma estrema”. Addebita in blocco gli aspetti negativi della Prima Repubblica a un “lungo centrosinistra” che dal governo Moro del 1963 giunge sino al crollo dei primi anni Novanta. E al cui interno gli appare secondaria la presenza di formule politiche differenti.
La formulazione solleva qualche dubbio, e non solo perché le eccezioni non furono del tutto irrilevanti: si pensi alle tensioni innescate nel 1972-73 dal ritorno del centrodestra, o alla fase dei governi di solidarietà nazionale nell’emergenza drammatica del 1976-79. Si pensi soprattutto ad altri due aspetti. In primo luogo all’inclusione a pieno titolo in questo schema del “pentapartito” degli anni Ottanta: cioè di una forma di governo che aboliva la contrapposizione fra centrodestra e centrosinistra unendo insieme socialisti e liberali, simbolo sin lì delle due opposte formule. Ne nasceva una coalizione destinata ad esasperare l’occupazione partitica dello Stato, a far esplodere il debito pubblico e a far deflagrare la crisi della Repubblica. Qualcosa di più, forse, di una semplice continuità con il passato.
Lascia qualche dubbio anche l’esclusione da questo “lunghissimo centrosinistra” del suo innovativo avvio, quello di cui si avverte qualche rimpianto: il “centrosinistra di programma” guidato da Fanfani nel 1962-1963 con il sostegno esterno dei socialisti. Quello che realizzò la scuola media unica e in cui Ugo La Malfa presentava la sua Nota aggiuntiva, il documento forse più lucido della cultura riformatrice italiana.
Non sono precisazioni “pignole”. Rinviano a nodi centrali nella storia della Repubblica: come si passò, ad esempio, da un ruolo indubbiamente positivo del sistema dei partiti al loro degradare? Al loro diventare «sempre più uguali a se stessi», come scriveva Pietro Scoppola in riferimento agli anni Ottanta: caratterizzati «sul terreno del voto di scambio, con un ulteriore incentivo alla corruzione politica e all’uso del potere ai fini della conquista del consenso». Se poi le involuzioni del sistema politico e quelle della società civile si intrecciano, questa “omologazione” agli anni Ottanta dei due decenni precedenti solleva ulteriori dubbi. Per questa via rischia forse di modificarsi il senso più immediato delle parole: a scapito in primo luogo della assoluta qualità delle analisi e delle riflessioni di Salvati.
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