Kamikaze a Damasco, decine di morti

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A due settimane dai due attentati suicidi nel quartiere dove si trovano le basi dei servizi segreti (44 morti e 166 feriti secondo l’agenzia stampa del regime), ieri un nuovo kamikaze ha causato altri 25 morti e dozzine di feriti a Damasco. E’ la fine della sicurezza nella capitale. A dieci mesi dall’inizio delle rivolte, la dittatura del presidente Bashar al Assad non può ormai più minimizzare il fenomeno come «marginale». Se è vero che per lungo tempo la capitale era stata relativamente tranquilla, come del resto Aleppo con la sua forte presenza di commercianti legati a filo doppio agli Assad, ora non più. La rivoluzione sta ormai raggiungendo il cuore vitale del Paese. Sono svanite le zone franche. Damasco diventa la prima linea e la violenza si intensifica. Le stesse sommosse, che inizialmente cercavano di mantenere il formato di manifestazioni pacifiche, sono ora sempre più sanguinose. E gli scambi a fuoco tra truppe lealiste e soldati passati armi e bagagli alle file rivoluzionarie diventano eventi quotidiani. Ieri ha disertato il primo generale, Mustafa Ahmad Al-Sheikh: lo ha annunciato lui stesso in un video, trasmesso da al Jazira, in cui legge un messaggio rivolto ai soldati invitandoli a passare dalle parte dei manifestanti.
Un colpo duro per la missione degli osservatori della Lega Araba. Giunti nel Paese il 23 dicembre (lo stesso giorno dei precedenti attentati suicidi), si ripromettevano di lavorare per diminuire lo scontro e trovare un compromesso. Ora invece il fronte rivoluzionario li accusa di essere burattini nelle mani del regime e addirittura di legittimarne l’esistenza, invece di chiedere le dimissioni immediate di Bashar. 
Non è la prima volta che il Paese è destabilizzato da violenza e attentati. Tra la seconda metà  degli anni Settanta e i primi Ottanta l’allora presidente-dittatore Hafez al Assad (padre di Bashar) sedò con il pugno di ferro le rivolte guidate dai Fratelli Musulmani. Il massacro perpetrato dalle milizie lealiste nella città  di Hama (costato forse oltre 20.000 morti) fu seguito da una lunga serie di gravi attentati a Damasco e nel resto del Paese. Quelle vicende sono poco note a causa della cappa della censura imposta dal regime. Ma è certo che solo nella seconda metà  degli anni Novanta l’opposizione fu battuta con un numero ancora sconosciuto di morti e desaparecidos nei centri di detenzione segreti.
La differenza da allora è che oggi Bashar appare molto più debole e addirittura incapace di imporsi sui vecchi apparati di potere cresciuti all’ombra di suo padre. Per contro la rivolta, alimentata dalle aspettative generate nella regione dalla «primavera araba», cresce di giorno in giorno e sta minando a suon di defezioni di massa intere unità  dell’esercito e degli organismi chiave dello Stato. Lo scontro crescente tra sciiti e sunniti nell’intero Medio Oriente, e soprattutto nel vicino Iraq, contribuisce inoltre ad aizzare la maggioranza sunnita siriana contro la minoranza alawita (una setta sciita) al potere da quattro decenni.
L’attentato ieri è avvenuto nel quartiere di Midan, dove nelle recenti settimane si sono verificate diverse manifestazioni. La televisione nazionale si è soffermata sulle vittime civili e sui danni nel quartiere. Il ministro degli Interni, Mohammed Shaar, è tornato a puntare il dito contro le rivolte. «Il kamikaze si è fatto saltare in aria con l’obiettivo di causare il massimo numero di vittime», ha dichiarato. Ma i capi delle sommosse sono tornati ad accusare la dittatura di architettare gli attentati col fine di «criminalizzare» l’intero movimento rivoluzionario.
Lorenzo Cremonesi


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