Inchini e baciamani, Sangue Blu al governo

by Editore | 13 Gennaio 2012 9:00

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C’è insomma un tracciato araldico che neppure negli esecutivi di sua maestà  Elisabetta II. I nobili sono infatti almeno sei, tra ministri e sottosegretari, tutti di antichissime famiglie.
E hanno lo stemma al dito come il ministro degli Esteri Giulio Maria Terzi di Santagata, secco, alto, verticale che, appena nominato, fu festeggiato dal presidente del suo circolo, «evviva, uno di noi», il circolo appunto “della caccia”, che è l’oasi, l’enclave, l’addio al mondo del vecchio frac dei vari Torlonia, Borghese, Ruspoli, Aldobrandini, Colonna, Odescalchi, Boncompagni, Orsini, Pallavicini, Barberini, Theodoli, Massimo, Chigi, Grazioli, Lancellotti e tutte le maschere dell’orrendo aristocafonal di Dagospia. Oppure sono discreti ed eleganti tecnici del baciamano come Enzo Moavero Milanesi. «La qualità  del baciamano» mi spiega sorridente Sergio Boschiero, il simpatico leader dei monarchici italiani, «è tutta nell’inchino». Basta fermare un attimo l’immagine e osservare appunto l’elegante riverenza che il ministro Moavero Milanesi, il Gianni Letta di Monti, ha offerto in omaggio ad Angela Merkel, e paragonarla per esempio a quella, ovviamente più famosa ma «tecnicamente reboante», di Chirac a Condoleezza Rice. Nel rapido fotogramma di Moavero c’è il lignaggio del principe mentre in quella vecchia istantanea ormai fissata nella memoria c’è la squillante esuberanza del moschettiere. Boschiero nota che Moavero Milanesi ha un cognome aragonese ma, per avventura migratoria, è signore del Lodigiano sin dal 1400 e sul quotidiano di Lodi “il Cittadino” viene celebrato come «il diretto discendente dei Bocconi, fondatori prima della Rinascente e poi dell’Università ». Dice Boschiero, il quale per la verità  disprezza i cacciatori di simboli araldici e gli esperti in gigli: «Capisco bene che a Bruxelles questi qui facciano tutti carriera: in fondo è la capitale di un regno». 
Mario Monti però non li ha scelti sfogliando il Libro d’oro dell’Araldica, quello edito prima del 1922 quando non c’erano i “conti di maggio” e neppure i tanti nomi che il fascismo plebeo poi titolò per meriti civili, come i Marzotto, i Barilla i Ciano. Adesso invece questi nobili al governo sono tornati fuori per via naturale, come una discreta eruzione di lava: i nobili come rimedio al cucù, alle barzellette e alla degradazione trimalcionesca della borghesia italiana?
Di sicuro la quota araldica al governo è maggiore di quella che il manuale Cencelli attribuiva ai piccoli partiti di una volta, ed in fondo è la riprova che l’Italia è in crisi visto che sia pure inconsapevolmente cerca l’antidoto persino nelle presunte virtù ereditarie che, come un liquore, impreziosiscono il liquido seminale. «Si tratta – dice ancora Boschiero – quasi sempre di alti burocrati dello Stato». 
Già . Come Filippo Patroni Griffi e Carlo Malinconico, due nobilissimi nei guai, il secondo sottosegretario dimissionario per vergogna, il primo ministro e proprietario di casa e coscienza low cost. Entrambi, sia pure in misura molto diversa, sono peccatori in caduta di stile, il contrario di quel che dovrebbero essere. Non grazia, ma leggerezza e sciatteria. Eppure nessuno di questi appartiene, almeno a prima vista, all’aristocrazia fru fru, ai nobili da barboncino con monocolo e bastone che, nel migliore dei casi, sono produttori di vino ma in genere non lavorano, «perché ho del mio», poco interessati alla ricchezza mobile e ai movimenti di danaro perché la loro terra è ferma: non terra circolare, ma terra da “circolo”, come quello della caccia, appunto. 
L’intera nobiltà  del resto, nel centocinquantesimo dell’unità  d’Italia, è finita a ballare sotto le stelle, tombale sigillo su un valore negato all’Italia, un’aristocrazia appunto che prima ancora che al tradimento e alla slealtà  rimanda alla inconsistenza e alla volgarità : «… I savoiardi me li mangio col caffè, io!» dice don Ciccio Tumeo al Gattopardo.
Diverso è il caso del cognome Andrea-Doria che, spiega Boschiero, non sta neppure nel Libro d’oro ma è una delle famiglie più antiche e titolate d’Italia. E Marco Rossi-Doria, sottosegretario all’Università , figlio di Manlio, un economista illustre e amatissimo, uno dei più grandi meridionalisti, «con questo cognome viene probabilmente da un’irriducibile nobiltà  borbonica che, diventata di sinistra, ha però rinunziato ai titoli nobiliari». E forse questa è la vera prova di nobiltà  di un nobile: rinunziare al blasone, gettare via gli orpelli e diventare come Marco Rossi Doria, un maestro di scuola, maestro di strada: la biografia politica e intellettuale come unico titolo nobiliare.
E c’è poi Staffan de’ Mistura, sottosegretario agli Esteri, nato a Stoccolma da madre svedese e padre originario di Sebenico. Nelle cronache del tradizionale Raduno dei Dalmati è sempre ricordato come il discendente «della più antica e limpida nobiltà ». Dice Boschiero: «Quello sì che è un tipo molto distinto, che fa arredo e scena. Come un affresco». Del resto anche l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, che pure non è nobile, si è formato nel collegio navale Morosini che è la culla degli Aosta e degli eroi marinari d’Italia, compagno di corso in spirito di Corto Maltese e dunque di Hugo Pratt, il marinaio della malinconia e del viaggio che non finisce mai, e chissà  se è vero che come tutti i morosiniani Di Paola è tatuato. Sicuramente ha la passione per gli sport estremi tipica della nobiltà  guerriera. A lui spetta di cambiare la Difesa italiana in questo governo dove tutti i tecnici, non solo quelli nobili, sono sospettati di essere massoni.
Intervistato dal “Venerdì di Repubblica” al circolo della Caccia (rieccoci) il gran maestro Gustavo Raffi, numero uno del Grande Oriente, ha scherzato con compiacimento sui cappucci e i grembiulini al governo e sul libro che ha scritto con Paolo Peluffo, sottosegretario alla Comunicazione, frammassone secondo il chiacchiericcio. 
Il collega Paolo Casicci gli ha chiesto: Gran maestro, l’Italia vuol sapere… E Raffi: «Mario Monti è un gran galantuomo. Attento. Preparatissimo. Potenzialmente ha tutte le carte in regola per essere un ottimo fratello». La massoneria, logge deviate a parte, è in fondo il sindacato degli aspiranti galantuomini. Dice Boschiero: «In periodi di crisi estetiche tutti questi diventano una risorsa». Ma a me non viene in mente la rivincita dei viceré su De Roberto ma il film “Sedotta e abbandonata” di Germi quando Saro Urzì per rimediare al disonore della sua figliola racchia (quella bella era Stefania Sandrelli) si rivolge al nobile del paese che rivestito, fornito di dentiera, nutrito, entra a far parte della famiglia Ascalone e si aggira ripetendo: «Lumache da succhiare / e donne da baciare / non possono mai saziare».

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