In strada a Homs, la città -fantasma “I salafiti a caccia di noi cristiani”

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HOMS – L’unica certezza sono i morti, a decine, a centinaia da quando è esplosa la protesta, e la paura che si taglia a fette mentre camminiamo per le stradine di Hamidiyeh, il centro storico abitato da una maggioranza di cristiani i quali, anche se non lo dicono apertamente, cominciano a sentirsi nel mirino. Per il resto Homs appare come una città  di fantasmi, spaccata in due non soltanto dall’Oronte ma dal fiume di sangue che da un mese a questa parte l’attraversa. Metà  delle scuole sono chiuse, metà  dei negozi devono tenere le saracinesche abbassate, metà  degli uffici non funzionano. E metà  dei suoi ottocentomila abitanti vive nell’incubo di un doppio assedio: quello della guerriglia che detta legge su interi quartieri, come Bab Amr, Bab Assiyeh, Talbissiyeh, e quello delle forze di sicurezza che, non potendo riprendere il controllo di queste zone, cercano almeno di bloccare le sortite del nemico.
Si deve parlare di guerriglia, ad Homs, perché qui la protesta popolare da cui tutto è cominciato, dieci mesi fa, ha perduto le sue caratteristiche originali. Ed anche la repressione, come dire, s’è adeguata. Certo, continuano le manifestazioni di massa nei quartieri dell’insurrezione, ma adesso sono “protette” da milizie armate di incerta provenienza, che il governo di Damasco rapidamente liquida “come bande terroristiche”. Così come spesso, nella parte della città  rimasta sotto controllo governo centrale, si organizzano raduni di fedelissimi del presidente Assad.
Racconta Maher, 41 anni, tecnico di una multinazionale energetica, incontrato ad Amidyeh assieme ad un gruppetto di amici: «Ogni giorno è così, da mesi, con il lavoro a giorni alterni e i bambini costretti a stare a casa. Perché in alcune scuole si sono presentati i barbudos (così li chiama Maher, con una chiara allusione allo stile integralista islamico ostentato da alcuni militanti della rivolta, ndr) costringendo gli insegnanti a presentarsi ogni mattina da soli, per onorare lo stipendio che guadagnano, ma impedendo agli alunni di frequentare le lezioni». Fra gli amici di Maher è un coro di «così non si può più andare avanti» e di «cosa aspetta il presidente a fare piazza pulita di questi banditi?».
Ma non è soltanto la militarizzazione dello scontro ad affiorare per le strade di Hamidiyeh, dove ad ogni angolo c’è un soldato armato di mitragliatrice dietro una postazione di sacchetti di plastica blu pieni di sabbia. Da certi accenni, da certi discorsi lontano dai microfoni, trapela la paura che la spirale della violenza possa innescare uno scontro settario, una guerra di religione. 
Pubblicamente, i cristiani di Hamidiyeh negano che vi siano problemi di sorta con i sunniti, corrente religiosa maggioritaria dell’Islam e nella società , politicamente rappresentata dai Fratelli Musulmani. Invece, e con una certa dose di dettagli raccapriccianti, preferiscono alludere alla faida esplosa tra i sunniti e gli alawiti, detti anche sciiti della montagna, la setta eterodossa della fede sciita da cui culturalmente e socialmente proviene la famiglia Assad e gran parte dei vertici del regime.
Rapimenti, oltraggi, cadaveri orrendamente mutilati e gettati nella spazzatura non senza aver impresso sui corpi scritte in omaggio a questo o a quel leader fondamentalista che equivalgono ad altrettante rivendicazioni. Secondo questi racconti, i miliziani sunniti, siriani o d’importazione, come molti ritengono, starebbero cercando di consumare la loro vendetta per il massacro di Hama del 1982, quando la violenta contestazione contro il regime di Hafez Al Assad, padre dell’attuale presidente, Bashar Al Assad, venne brutalmente repressa ad Hama, dove le forze corazzate guidate dal fratello del Presidente, Rifaat, da decenni in esilio dorato a Londra, avrebbero ucciso fino a ventimila persone.
In conciliaboli più ristretti, tuttavia, alcuni cristiani di Homs, ammettono di sentirsi nel mirino come gli alawiti. Dina, un medico che ha studiato in Europa, ha parole durissime contro i “salafiti”, gli integralisti islamici sunniti che, secondo i governanti di Damasco, avrebbero infiltrato la protesta secondo un disegno che ricondurrebbe il “complotto contro la Siria” ad un piano saudita.
«I salafiti – dice Dina con una nota d’emozione nella voce – sono soltanto terroristi e spacciatori di droga. Cristiani, alawiti, o altre minoranze, per loro non c’è differenza, sono tutti nemici dell’Islam, infedeli da eliminare perché corrompono la terra islamica con la loro stessa presenza. Nel mio quartiere vanno in giro armati e a viso scoperto. Le tuniche e i kalashnikov. La gente ha paura. Io devo andare a lavoro scortata dai miei parenti».
È sulla base di questi timori, che la comunità  cristiana s’è finora schierata con il presidente Assad. Persino con alcune clamorose prese di posizione del clero locale, in cui prevale, in sostanza, l’accettazione dello status quo sull’incertezza del futuro. Più articolata la posizione degli alawiti, fra i quali un folto gruppo di intellettuali ha preso le distanze dal regime.
E tuttavia, nel massacro che giorno dopo giorno si consuma ad Homs, è difficile, se non impossibile, attribuire una precisa identità  alle vittime quanto tracciare un profilo certo dei carnefici. E tanto più in quel concentrato del dolore umano che è il grande Ospedale militare alle porte della città , dove la pietà  talvolta viene offuscata dalla rabbia e dalla polemica di parte.
Corpi sofferenti nelle corsie. Corpi carbonizzati nella morgue che non saranno mai riconosciuti. Corpi freddi e irrigiditi, recuperati dopo l’ultima sparatoria di ieri, allineati sul pianale di un’autoambulanza. La statistica, ufficiosa, vuole che in media, ogni giorno, 24, 25 persone vengano trasportate all’ospedale militare di Homs. Poi ci sono quelli ricoverati all’Ospedale civile. Tre-quattro morti al giorno, decine di feriti, alcuni dei quali destinati a morire. Ecco un corteo sotto la pioggia gelida, con tanto di banda e marcia funebre di Chopin, per tre ufficiali. Un parente urla improperi contro Al Jazeera e Al Arabiya che, dice ripetendo le accuse dei governanti di Damasco, “falsificano la realtà “. Poi la verità  amara che il generale Issam Osman, direttore del nosocomio, ammette a denti stretti: «Sì, lo Stato ha perso il controllo di alcune zone della città ».


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