by Editore | 4 Gennaio 2012 9:56
Altro che telefonate di cortesia per scambiarsi gli auguri, come quelle che Monti ha fatto dopo capodanno ai segretari politici che sostengono il governo. Bersani ora teme un così occasionale collegamento con Palazzo Chigi sulla «fase due», che inizia con l’imminente riforma del mercato del lavoro. E in una lettera a Repubblica (inaugurando una nuova annata epistolare ai giornali) chiede al premier «un rapporto stabile, permanente e ordinato con i gruppi parlamentari», «da allestire anche nella fase ascendente delle decisioni». Tradotto in lingua meno felpata: stavolta eviti di portare in parlamento e alle forze politiche provvedimenti chiusi e sostanzialmente immodificabili. Sul tema, Massimo D’Alema al Messaggero è più tranchant: «Il governo deve cercare di non farsi troppo condizionare innanzitutto da Berlusconi e dalla destra». Perché nei fatti il Monti «tecnico» che non ascolta i partiti infila una dopo l’altra le ragioni della destra. Il pacchetto sul lavoro in lavorazione sul tavolo della ministra Fornero, infatti, per il Pd già si presenta male. È vero che non dovrebbe contenere l’esplicita cancellazione dell’articolo 18. Ma la scelta, ieri ribadita dal governo, di consultare i sindacati per tavoli separati rischia di vanificare tutta la retorica democratica sull’unità sindacale ritrovata dopo la «divisiva» stagione Sacconi. Di più: segnala esplicitamente la continuità con il governo Berlusconi. Almeno nel metodo, fin qui. Fra l’altro quello del «ritorno alla concertazione» era l’impegno che il leader Pd aveva preso in un incontro con i sindacati, lo scorso 14 dicembre. «La questione del formato degli incontri va risolta con buonsenso, senza creare pregiudiziali e divisioni in premessa», dice oggi Bersani. «Voglio credere che nessuno voglia rompere il punto di equilibrio raggiunto. Credo che l’approccio debba essere seguire le cose più semplici e immediate». Il Pd ancora una volta si aggrappa al presidente Napolitano, che ieri a Napoli ha parlato della «visione degli interessi generali del Paese» dei sindacati ed ha citato l’accordo del 28 giugno. Un testo che però è una coperta corta che ciascuno può tirare (e interpretare) come vuole. Maurizio Zipponi, dell’Idv, infatti lo dice : «Il processo unitario del mondo del lavoro e il confronto con le parti sociali sono indispensabili e devono segnare la distanza dalla pratica provocatoria promossa dal precedente governo. L’accordo del 28 giugno scorso è solo un primo passo verso questa direzione: manca il criterio democratico, universale per la validazione degli accordi attraverso il referendum». Di Pietro non fa giri di parole: «Pure le pietre sanno che dividere i lavoratori significa dividere la parte più debole dei contraenti». E l’idea di dividere «è tipica di chi ha paura di confrontarsi» o, meglio, «di chi ha già deciso una scelta e la vuole solo notificare a qualcuno a danno di qualche altro. Vuol dire mettere nelle spalle di ogni lavoratore una spada di Damocle: o accetti o paghi le conseguenze e vai a finire licenziato a casa». Più chiaro di così. Sull’unità sindacale il Pd ha puntato molto, per arginare ‘da sinistra’ il governo e per contenere le proprie differenze interne. Ma ieri l’unità sindacale ha ricominciato a scricchiolare parecchio: la Cgil ha chiesto con forza una consultazione comune, Cisl e Uil non ne hanno fatto una questione pregiudiziale. Non è un buon segno. Nel Pd dunque l’allarme rosso è già scattato, anche prima che si entri nel merito dei provvedimenti, cosa che succederà dalla prossima settimana. «Il governo non deve dare l’impressione di voler dividere i sindacati», avverte l’ex ministro Cesare Damiano. Anche perché «se si vuole perseguire la coesione, come ha ricordato Napolitano, l’unità e la convergenza delle parti sociali sono la via maestra». E poi ci sono le scelte. Per il Pd «vanno stanziate risorse per ammortizzatori sociali inclusivi e tutelare il lavoro stabile e quello precario che saranno messi a dura prova in un 2012 di recessione. E non può considerarsi chiuso il capitolo pensioni, vanno apportati correttivi». Il guaio è che Monti non ci sente, in questa fase «ascendente» (per dirla con Bersani) della decisione. così Stefano Fassina, il combattivo responsabile economico dem: «La ritrovata unità d’azione delle organizzazioni sindacali è un bene comune che il governo dovrebbe valorizzare per il bene dell’Italia». «Il governo, dopo il brutale intervento sul pensionamento di anzianità , eviti di compiere altri errori. Le condizioni di sofferenza sociale non solo dei giovani ma dei lavoratori definiti in modo offensivo ipergarantiti sono acutissime». Ma il governo ha già deciso di tirare dritto. Grosso guaio per i lavoratori, pensionati e i cittadini tutti. E, in subordine, grosso guaio anche per il Pd.
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