Il Welfare facile inizia dall’aumento dei buoni pasto

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L’esperienza-pilota in Italia è quella della Luxottica ma ormai non si contano più le realtà  e i gruppi che hanno negoziato con i sindacati formule innovative di sostegno alla condizione economica dei lavoratori e delle loro famiglie. Finora però queste esperienze sono rimaste confinate alla dimensione di impresa mentre ieri sul Corriere il professor Alberto Brambilla si chiedeva se non potessero diventare un elemento della politica retributiva e fiscale nazionale al tempo della Grande Crisi. 
La materia è regolata dal Tuir, il testo unico delle imposte sui redditi, che prevede un’ampia serie di possibilità  di defiscalizzazione. Si va dall’assistenza sanitaria alla mensa, dai ticket restaurant al trasporto collettivo e poi si arriva alle colonie per i figli, agli asili nido, alle borse di studio. Le opportunità , dunque, che il Tuir concede alla contrattazione aziendale sono numerose e molte ancora da scandagliare. In base alle esperienze che si stanno facendo e alle elaborazioni in corso si può tranquillamente dire che si può andare ben al di là  di una quattordicesima mensilità . 
Ma torniamo alla forma di defiscalizzazione più diffusa, rappresentata dai buoni pasto. In Italia la prassi di dare ai dipendenti il ticket da spendere negli esercizi commerciali data dalla seconda metà  degli anni Novanta e il valore nominale del buono era di diecimila lire, interamente deducibili sia per quanto riguarda il fisco che la contribuzione. 
Con il passaggio alla moneta unica il valore esentasse è passato a 5,29 euro e da lì non si è più mosso nonostante sia difficile oggi consumare un pasto decente con quella cifra. I fortunati che dispongono di una mensa, magari appartenenti alla stessa azienda, usufruiscono di un servizio che vale sicuramente di più. Da qui le richieste che sono state avanzate da diverse parti di aumentare la quota detassata (a dieci euro) in maniera che le aziende possano elevare il valore nominale del buono. Già  adesso alcuni datori di lavoro concedono un ticket più alto (lo Stato l’ha fissato a sette euro e la Regione Lombardia a dieci) ma la quota detassata è sempre ferma a 5,29. Chi sostiene queste richieste argomenta che il ticket è totalmente tracciabile (non consente il «nero») e quindi genera gettito fiscale, incentiva i consumi perché va speso tutto e serve in qualche maniera anche a raffreddare i conflitti sindacali in una fase di recessione.
Quanto costa all’erario l’attuale detassazione del ticket restaurant? 
Secondo le cifre della commissione presieduta dal sottosegretario Vieri Ceriani, che ha sottoposto all’esame del microscopio tutte le forme di agevolazione fiscale, il costo è di 470 milioni, ma le organizzazioni di categoria contestano questo dato e sostengono che la cifra corretta si aggira attorno a 300 milioni di euro. 
Il solo fatto che il governo abbia monitorato il buono pasto fra i trattamenti agevolati dal fisco ha messo in allarme gli operatori, gli stessi che ne sostengono l’aumento oggi temono un contropiede. La stima del costo per le casse dello Stato di un ticket a dieci euro è tra i 550 e i 600 milioni. 
Ma il governo ha intenzione di andare in questa direzione oppure no? È presto evidentemente per dare una risposta, sarebbe però francamente incomprensibile tornare indietro. Se si vuole valorizzare la contrattazione aziendale e legare — come già  avviene in quelle che abbiamo chiamato realtà  pilota — il welfare aziendale al conseguimento di obiettivi di produttività , sarebbe incoerente prendere il passo del gambero. Invece, pur valutando le compatibilità  di politica fiscale, un aumento del ticket a dieci euro apporterebbe sicuramente un piccolo contributo alla coesione sociale. E rivedrebbe un valore monetario fermo da ben ventitré anni.


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