Il vero obiettivo sono gli eurobond
Quando Nicolas Sarkozy parla di una perfetta identità di vedute con Mario Monti, capisce per primo quali ne siano le implicazioni. Il presidente francese e il premier italiano non vedono l’ora che vada in porto un progetto che né l’uno né l’altro hanno mai voluto e che non considerano una priorità . È quello che Mario Draghi, per mancanza di definizioni migliori, ha chiamato «fiscal compact»: un patto di bilancio. Forse sarà un Trattato europeo, forse un accordo internazionale fra un numero per ora imprecisato di Paesi. Ancora non si sa e questo è uno dei problemi. Si tratta in ogni caso di sorveglianza sul deficit, sul debito e sul sistema semi automatico di sanzioni per chi viola le regole. Quell’accordo emerso il 9 dicembre fra i 26 leader dell’Unione Europea, con Londra fuori, contiene (anche) obiettivi di buon senso ma è ugualmente una collezione di paradossi. Il fatto che Monti e Sarkozy abbiano fretta di approvarlo pur ritenendolo economicamente superfluo è solo il minore.
È un paradosso per esempio che il premier britannico minacci una secessione europea a causa di quelle norme: solo tre settimane prima, il suo governo le aveva già votate esattamente come tutti gli altri. La plateale opposizione dell’inquilino di Downing Street fa parte del teatro politico di Bruxelles che anche a Londra fa comodo per sopravvivere. Ma il paradosso più grande è a monte: quelle regole, le stesse che da due mesi assorbono le migliori energie dei grandi leader d’Europa, in realtà sono già in vigore. Da mesi. Il «fiscal compact» di cui si discute con accanimento non è che la fotocopia di un pacchetto di regolamenti e direttive già approvati a novembre. L’Italia ha votato a favore, la Gran Bretagna anche e così Germania e Francia. È il cosiddetto «Six Pack», «pacchetto di sei», nome prelevato da qualche eurocrate da un linguaggio da rivista americana di culturismo (significa: «Robusti muscoli addominali»). I vincoli sul deficit, le sanzioni, le regole sul debito sono tutte lì e difficilmente ora potranno cambiare in modo radicale.
Tutto il lavoro dei leader è volto in realtà a elevare il «Six Pack» al grado di solenne trattato europeo. L’obiettivo è politico. Anche Angela Merkel, come Cameron, ha bisogno di una sua scena madre a Bruxelles. La cancelliera intende mostrare all’opinione pubblica tedesca, ai parlamentari, alla Bundesbank e alla Corte costituzionale di Karlsruhe che ha ottenuto garanzie sulla disciplina dei partner. È esattamente questo il motivo per il quale Monti e Sarkozy hanno fretta che il «fiscal compact» vada in porto. Se si troverà un compromesso definitivo e tutti (meno Londra) lo ratificheranno, il leader italiano e quello francese sperano che finalmente si possa voltar pagina. A quel punto Angela Merkel avrà più margini di manovra in Germania e il Consiglio europeo, magari già quello del 2 marzo, potrebbe iniziare a discutere di Eurobond.
Anche questo nome è un eufemismo: Eurobond significa che una parte del rischio per il debito dell’Italia o della Spagna sarebbe a carico dei contribuenti tedeschi. La riluttanza di questi ultimi è comprensibile, anche se una svolta del genere aiuterebbe a far cadere i tassi dei Bot e dei Btp. Nel migliore dei casi, a marzo i leader dell’Unione potranno al massimo dare un mandato al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy perché presenti idee più precise a giugno. Non c’è nessuna garanzia che questo progetto vada avanti in qualche forma e risulti accettabile alla Germania.
Nel caso sorgano nuovi ostacoli, una linea di difesa efficace sarebbe l’aumento degli interventi della Banca centrale europea sui titoli italiani e spagnoli. Il presidente Mario Draghi e i suoi colleghi ne parlano da settimane, ma appare difficile che possano arrivarci nell’orizzonte di tempo prevedibile. La Bce potrebbe giustificare l’acquisto di debito pubblico solo per evitare il rischio di una deflazione, un pernicioso avvitamento dei prezzi in Europa a causa della crisi economica. Prima però dovrebbe già aver tagliato i tassi quasi a zero e nel frattempo l’inflazione sta restando comunque sostenuta, mentre la Germania continua a creare posti di lavoro.
Un aiuto decisivo della Bce non è dietro l’angolo. All’Italia dunque non resta che chiedersi perché Madrid abbia migliorato il suo premio di rischio su Roma di 250 punti in sei mesi. Anche qui la risposta è politica: la Spagna ha davanti a sé un forte mandato elettorale di cinque anni e un esplicito patto bipartisan di risanamento. In Italia invece i partiti appoggiano le riforme del governo sperando di non farsi notare. Ma pochi dei titoli di debito emessi dal governo Monti scadranno in questo scampolo di legislatura: andranno quasi tutti rimborsati da un prossimo esecutivo, eppure nessuno dei partiti che si candidano a governare dopo il 2012 si è impegnato a proseguire su una solida terapia di riforme. La strategia di lasciar fare ai «tecnici» il lavoro sporco per poi riprendere come prima ha le gambe corte e i mercati lo hanno capito: per questo lo spread sul Btp decennale resta oltre i 500 punti anche dopo la manovra.
Un impegno forte dei partiti sulle riforme anche dopo il 2013 aiuterebbe come un Eurobond, o come un intervento della Bce. Ma su questo, a differenza del «Six Pack», zero visibilità .
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