Il trasformismo, vizio della sinistra
Nello sforzo di comprendere le dinamiche della situazione economica e politica italiana della seconda metà del Novecento si è sovente fatto ricorso alla metafora del calabrone, cioè di un animale che riesce a tenersi in volo a discapito delle leggi di gravità . A sorpresa di tutti, infatti, la continua instabilità del sistema politico italiano ha sempre ritrovato momenti di ricomposizione, smentendo tutte le tesi ricorrenti della crisi e del collasso.
Questa situazione, applicata alla politica, è continuata nel nuovo secolo fino ai nostri giorni. Nella ricerca delle cause di tutto ciò – a parte i pochi arditi che hanno perseverato nel tentativo di ricercarne le cause nel quadro dei cambiamenti strutturali e sociologici della società – ha sempre prevalso l’approccio giuridico-istituzionale. Una forma tipicamente italiana, che pensa di risolvere i problemi della frammentazione del tessuto politico mediante le leggi elettorali, le norme di funzionamento delle Camere e le regole varie di registrazione del consenso, tra le quali si possono annoverare i referendum e anche l’ultima diavoleria delle primarie. A fasi alterne si sostiene la bontà del pluralismo dei partiti, espressione della ricchezza politica e culturale delle posizioni in campo, oppure del bipolarismo assunto a simbolo della maturità politica degli italiani capaci di accantonare localismi territoriali e mentali per concentrarsi sulle grandi scelte.
Ovviamente le ragioni dell’una e dell’altra posizione sono sostenute da esempi di altri Paesi, presi a sproposito e confondendo i livelli di consenso reale, politico e culturale esistenti nella società con l`ombra delle istituzioni. Nei fatti il pluralismo degenera in un frammentarismo fonte di una miriade di microformazioni partitiche estremamente perniciose per la fisiologia democratica. Il bipolarismo si incarna in coalizioni sì eterogenee da rendere impossibile che quella vincente governi veramente; si risolve, in pratica, in una mera apparenza, anzi, in una mistificazione. Mette in scena false contrapposizioni, fittizie alternanze o ricambi di ceti politici al potere, ingannevoli alternative di indirizzi e di programmi di governo, mentre nella realtà opera come una vera e propria consociazione tra maggioranza e minoranza, con i conseguenti fenomeni spartitori, corruttivi e clientelari.
Insomma, è la tesi sottesa da questa mia lettura, la frammentazione della politica italiana è una sceneggiata ben diretta che serve a mascherare – dietro l’affermata rigidità e continuità delle posizioni in campo e degli interessi che rappresentano – una sostanziale disponibilità al compromesso. L’aspetto “italiano” di questa vicenda che la Seconda Repubblica ha aggravato e reso cronico è che il compromesso non viene raggiunto prima sui grandi temi della politica, per poi trasmettersi ai vantaggi partitici delle spartizioni del potere e delle lottizzazioni, ma sono i secondi a motivare e canalizzare il consenso verso i primi. Da qui la sostanziale immutabilità delle scelte di politica economica e di politica estera – le variabili indipendenti del sistema Italia- e il continuo vociare dei e nei partiti e coalizioni che somiglia molto alle “grida” del mercato del pesce di Palermo.
Per un approfondimento critico di queste tesi sono preziose le ricerche di Mauro Fotia sulle forme di rappresentanza del potere in Italia e il sistema dei partiti, tra le quali meritano menzione Le lobby in Italia (Dedalo, 2002) e il suo recente lavoro Il consociativismo infinito (Dedalo, 2011). Quest’ultimo è una secca e dura critica del trasformismo dei partiti della sinistra condotta in modo analitico e rigoroso nelle diverse fasi storiche: il centrismo degasperiano (1947-1962), l’esperienza di centrosinistra (1962-1972), i governi di solidarietà nazionale (1976-1979), le coalizioni di pentapartito (1983-1992) fino alle vicende più note della Seconda Repubblica e al berlusconismo. Il fallimento dei tentativi fatti di arginare il berlusconismo, con l’Ulivo fino al Partito democratico, è da attribuire, secondo l’autore, al rafforzarsi e generalizzarsi dello spirito consociativo e trasformista che ha ucciso l’idea stessa dell’alternativa e che ha poi spinto la sinistra nelle braccia di un “governo tecnico” appoggiato da Bersani e Berlusconi con l’applauso dei “centristi”. L’analisi di Fotia sul formarsi della cultura dell’Ulivo e del Partito Democratico è pregnante è impietosa. Nasce da una rielaborazione dell’idea della sinistra sull’eguaglianza, piegata all’interpretazione blairiana dell’«uguaglianza delle opportunità », dall’accettazione del concetto di «società di individui» i cui rapporti sono regolabili non dai principi di solidarietà e dai loro legami sociali ma da «relazioni contrattuali soggettive», dall’abbandono della «centralità del lavoro», e infine dal forte affievolimento dei diritti di cittadinanza. Passaggi che rendono estremamente incerte e confuse le nuove concezioni della sinistra sul nesso che lega la cittadinanza civile alla cittadinanza sociale e mettono in forse la dignità del lavoro come valore costituente della democrazia. A conferma, sottolinea Fotia, del fatto che il consociativismo politico s’accompagna sempre col consociativismo socio-economico. L’immagine della socialdemocrazia, presentata come la nuova frontiera della sinistra italiana, si dissolve rapidamente in quella della liberal-democrazia, che fa riesplodere le mai sopite contraddizioni tra la componente laica e quella cattolica del Pd. La presenza di Berlusconi sulla scena politica, a ritmi alterni corteggiato e condannato, favorisce l’occultamento dietro il polverone della questione morale sulla sua persona, del procedere di un rapporto di adesione sostanziale alla politica estera ed economica dell’Italia. Berlusconi traghetta di fatto la sinistra verso il programma del governo tecnico di Monti, intorno al quale si realizza, in una fase storica molto difficile per l’Italia e l’Europa, un blocco consociativista sinistro-conservatore fin qui inimmaginabile.
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