by Editore | 18 Gennaio 2012 12:25
Nella Repubblica Popolare la stagione dei salari omogenei (omogenei al ribasso, s’intende) è estinta. Dal 10 febbraio Shenzhen, metropoli simbolo del boom cinese, avrà i salari minimi più alti della Cina: 1.500 renminbi al mese, quasi 190 euro. Da questo mese Pechino ha portato la soglia obbligatoria ad almeno 1.260 renminbi. Nel novembre scorso, il ministro competente Yin Weimin aveva calcolato che nel solo 2011 la paga minima era cresciuta mediamente del 22% in tutto il Paese grazie agli interventi di 24 province. E la Foxconn, famigerato colosso taiwanese che sforna iPad e iPhone, ha talmente articolato la sua produzione, sparsa tra 27 stabilimenti anche all’interno, che ha diversificato anche le paghe, aumentate sì su larga scala però di più per chi non scappa dopo sei mesi.
Cambiano i mercati, la geografia, le politiche. Non esiste, insomma, un paradigma elementare. S’impongono, al contrario, letture contraddittorie. In novembre il Southern Daily, giornale piuttosto spregiudicato, spiegava che gli aumenti di stipendio non si traducono automaticamente in condizioni migliori per gli operai perché occorre valutare mille variabili, come le forme di welfare accessibili. E lo stesso Quotidiano del Popolo non sottovalutava le incognite di un costo del lavoro in ascesa, avvertendo nel 2010 che occorre esercitare un’«equilibrata ragionevolezza». Inoltre, la ristrutturazione dei salari in una stessa azienda moltiplica le occasioni di frustrazione, rivendicazione e scontro, come la Foxconn pare insegnare.
Dal 18 al 21 gennaio di 20 anni fa, Deng Xiaoping compì il leggendario «viaggio nel Sud» che lanciò definitivamente le riforme e avviò l’ascesa formidabile della Cina: che le riflessioni sul frastagliato universo delle politiche salariali conoscano proprio adesso un picco di attenzione pare una coincidenza. Ma forse vent’anni sono un tempo sufficiente perché, di nuovo, maturi il trapasso a un’altra era.
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