by Editore | 17 Gennaio 2012 9:33
Una funzione decisamente politica. Svolta, peraltro, in modi tecnicamente assai contestabili: come risulta dai tanti attestati di ineccepibile solidità emessi dalle agenzie a “beneficio” dei risparmiatori su grandi banche d’investimento alla vigilia del loro clamoroso fallimento (per la storia: nel 2008 sette giganti “votati” con titoli lusinghieri dalle agenzie di rating, Aig, Bear Sterns, Citigroup, Countrywide Financial, Lehman Brothers, Merryl Lynch, Washington Mutual, collassavano con perdite di 107 miliardi di dollari, non gravanti sui loro dirigenti che nel frattempo – 2007-2008 – intascavano 450 milioni di dollari).
Da dove viene questa pretesa? Da dove l’indubbio peso che essa assume nel condizionare la condotta dei governi?
La risposta è semplice. L’autorità delle agenzie di rating deriva dalla loro natura di portavoce e portaordini di un mercato finanziario integrato, che si contrappone a un sistema politico diviso, determinando una condizione di rapporto di forza nettamente favorevole al primo.
Questa condizione ha la sua data di nascita ben precisa. È nata nei primi anni Ottanta del secolo scorso, quando le storiche decisioni di Thatcher e di Reagan liberarono i movimenti internazionali del capitale, disfrenando la sua potenza mondiale e sovvertendo i rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra capitalismo e democrazia.
A Bretton Woods, quarant’anni prima, era stato instaurato un sistema mondiale che, mentre liberalizzava i movimenti delle merci, poneva limiti e ostacoli ai movimenti di capitale, riservando quindi un’ampia zona di autonomia alla politica dei governi nazionali e un ampio spazio ai movimenti operai. Questi limiti e questi ostacoli furono spazzati via.
La base di potere delle agenzie di rating sta dunque nell’integrazione del mercato finanziario internazionale cui si contrappone la frammentazione del potere politico mondiale. (I cantori liberali di quella “liberazione” potrebbero ri-leggere il monito di Davide Ricardo sui pericoli rappresentati dalla trasmigrazione da un paese all’altro del capitale, che non costituisce una merce avulsa dalla società ma una componente radicata della sua struttura).
Il divario di potenza tra economia e politica sul piano mondiale è tutto qui. E la risposta ovvia non sta certo nel ritorno alle economie nazionali protette, come nelle fantasie storiche della cosiddetta decrescita, ma, all’opposto, nella parallela integrazione in sistemi più ampi degli Stati: una risposta che ristabilirebbe un rapporto equilibrato tra capitalismo e democrazia.
L’Europa sta dando una risposta contraria e inefficiente.
Da un lato, quella britannica che vede nella City londinese un punto di riferimento centrale dell’organizzazione economica mondiale e ostacola con tutte le sue forze ogni passo verso l’unità europea. Dall’altro, la disperante assenza di visione della Germania e della sua riluttante Signora.
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