Il Qatar, dracula del clima

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Il Qatar mostra un grande attivismo internazionale negli ultimi tempi. E’ stato l’unico paese arabo a partecipare anche militarmente alla guerra alla Libia (oltre che con forniture di armi e denaro e la grancassa della sua tivù al-Jazeera) e ora è molto impegnato mediaticamente e finanziariamente nell’offensiva contro il regime degli Assad in Siria. Infine è riuscito a farsi scegliere come sede per la conferenza sul clima vincendo sulla Corea del Sud. Però, il Qatar sta alla protezione del clima come Dracula sta alla banca del sangue. Anzitutto ha le emissioni pro capite di gas «di serra» più elevate al mondo: incredibili 53,4 tonnellate annue, secondo le statistiche ufficiali dell’Onu (http://unstats.un.org/unsd/environment/air_co2_emissions.htm); il 435% in più dal 1990.
Per un confronto con i paesi che si trovano alla sponda opposta e che sono oltretutto gravemente danneggiati dal caos climatico, sempre secondo quelle statistiche del 2007 l’Afghanistan era a 0,03 tonnellate pro capite; il Bangladesh a 0,28; il saggio e remoto Bhutan a 0,86; la paladina dei negoziati climatici Bolivia a 1,38. Il Qatar supera anche i suoi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo: Kuwait, Arabia Saudita, Emirati.
Quali fattori provocano l’emissione di 63 milioni di tonnellate di CO2 dello staterello dell’emiro al Thani? Arricchitosi con l’economia estrattiva degli idrocarburi, l’emirato creato a suo tempo dall’impero britannico importa quasi tutto: è in un certo senso il contrario di quella fabbrica del mondo che è la Cina, la quale si fa carico delle emissioni legate alla produzione di tanti manufatti e beni intermedi che poi altri paesi consumano. Le emissioni qatariote sono dovute in parte al suo consumo finale di combustibili fossili, di certo elevatissimo. Ma in primis contano le emissioni necessarie alla produzione, raffinazione e trasporto del petrolio e alla lavorazione del gas naturale che viene liquefatto prima di essere esportato; il Qatar ne è il maggiore esportatore mondiale, oltre a coprire con lo stesso l’80% del proprio fabbisogno energetico.
Nessuno stupore se l’incongruo ospite del vertice sul clima 2012 fa parte di quel gruppo di petromonarchie che sono state in prima linea in tutti i passaggi cruciali per rendere inefficace il pur limitatissimo Protocollo di Kyoto ed evitare qualunque allontanamento dall’economia degli idrocarburi: come sanno i negoziatori, a turno Kuwait, Arabia Saudita e gli altri, durante le lunghe ed estenuanti trattative di ogni conferenza, si inventavano qualche vizio procedurale per azzerare tutto.
Ma, come ha spiegato sul Guardian mesi fa il giornalista inglese George Monbiot, esperto di ambiente, l’Occidente non sosterrà  di certo processi democratici fra le monarchie del Golfo – ottime acquirenti di armi, oltretutto – perché sono loro le più flessibili e servizievoli nell’offerta. Qualche tempo fa, quando il vento delle «primavere arabe» sembrave soffiare sul Medio oriente, la banca francese Société Générale aveva avvertito che una rivolta in Arabia Saudita porterebbe il prezzo del barile a 200 dollari. Un prezzo così «farebbe cadere i governi delle democrazie nominali occidentali». Anche se farebbe bene al clima.


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    Ci sono molti equivoci sull’Ilva e Taranto. Come il conflitto fra lavoro e salute. Come se i lavoratori non fossero cittadini – e figli mariti fratelli genitori – e sicurezza e malattie sul lavoro non fossero essenziali per tutti. L’equivoco vuol coprire un passato in cui l’azienda ha ottenuto una extraterritorialità , violando leggi e manipolando l’opinione; e oggi raschia un fondo di barile esausto, scansandone il risarcimento.

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