Il Processo
Si intitola Il processo. Eichmann a giudizio, ma potrebbe quasi chiamarsi “Processo ad Hannah Arendt” la mostra che arriva da Berlino ed è pronta ad aprirsi negli spazi delle Murate, le ex-prigioni di Firenze, il 23 gennaio (fino al 18 febbraio), quattro giorni prima del Giorno della Memoria. La visione e la lettura dei numerosi video e documenti del procedimento che iniziò l’11 aprile 1961 a Gerusalemme dopo il clamoroso rapimento da parte del Mossad, l’11 maggio 1960, del direttore del Dipartimento Affari Ebraici IV B 4 delle SS rifugiato in Argentina – dell’organizzatore prima dell’espulsione degli ebrei dalla Germania, del loro trasferimento ad Est e poi dei trasporti verso i campi di sterminio da tutta l’Europa occupata –, la lettura proposta dai curatori tedeschi, dicevamo, si differenzia infatti dalla diffusa interpretazione della filosofa tedesca che seguì (ma solo in parte!) l’avvenimento epocale nella capitale israeliana per il New Yorker e vide in Eichmann “la banalità del male”. Il Male che Eichmann incarna non ha niente di “banale”, come mette in luce il percorso creato dalle fondazioni berlinesi Topografia del Terrore e Memoriale degli Ebrei Assassinati in Europa, la statura di Eichmann non è affatto quella di un grigio burocrate incastrato nel motore della tirannia come una qualsiasi rotella inconsapevole e necessaria al meccanismo. La visione della filosofa tedesca era senz’altro legata alla sua tesi sulla cappa psicologica invincibile del totalitarismo, e serviva forse a salvare dalla colpa collettiva il popolo tedesco in mezzo a cui si era formata e forse persino Heidegger, il suo maestro, che al nazismo aveva aderito. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: «ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita», senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d’altri “volenterosi carnefici” al genocidio.
Ecco invece subito nell’esposizione portata in Italia dalla Regione Toscana e, attraverso la cura di Camilla Brunelli, dalla Fondazione Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza di Prato, le tappe della sua biografia: legato fin da giovanissimo alla destra austriaca che chiedeva l’annessione alla Germania e si nutriva di antisemitismo, presente nell’estremismo militante, lettore attento fin dalla fine degli anni Venti di giornali nazional-socialisti, parte di quel misero 3% che nel ’30 in Austria votò per il partito nazista a cui aderisce definitivamente nel ’32. Nel Reich dal ’33, all’indomani della vittoria di Hitler, Eichmann riceve una formazione paramilitare nelle SS e nel ’34 entra nel Servizio di Sicurezza del Reichfuehrer Himmler, e ben presto con gradi sempre più alti nell’unità “Affari ebraici”, dedita a forzare gli ebrei a lasciare la Germania. Alla conferenza di Wansee del ’42 che mise a punto il piano della “soluzione finale” fu uno degli organizzatori (e lì, lo vediamo dire in tribunale, si sentì sollevato come Ponzio Pilato perché erano stati “i protagonisti, i papi del Reich” a decidere, anche se era lui stesso a prospettare le soluzioni possibili). Himmler lo definì “lo specialista” quando nel ’44 lo chiamò come sempre a deportare velocemente mezzo milione di ebrei ungheresi ad Auschwitz, un “maestro” della spoliazione, dell’emigrazione forzata, e ben presto del trasferimento nei lager. Persino nella sua deposizione nel ’61 in Israele Eichmann chiama gli ebrei “parassiti”.
Cosa ci vide di “banale” Hannah Arendt? La sua intuizione, o la sua forzatura, che tanto ha condizionato la riflessione sulla Shoah come di un evento fatale perpetrato da uomini senza volto, non funziona (fu l’autorevole Raul Hilberg a dirlo per primo, seguito ben presto tanti altri storici): una mappa mostra gli infiniti spostamenti di Eichmann in tutti i luoghi caldi dello sterminio, la storiografia più recente riportata in catalogo in bel saggio di Gerhard Paul ne certifica le continue iniziative, la partecipazione attiva alla macchina della morte, la conoscenza esatta di quel che stava avvenendo, l’antisemitismo convinto (il comandante di Auschwitz Rudolf Hoess l’aveva definito “ossessionato dalla questione ebraica”). Un quadro confermato anche dall’intervista data nel 1957 da Eichmann a Willem Sassen, un giornalista ex SS (in Italia nel ’61 la pubblicò Epoca).
Ma la mostra, che dedica una parte curata da Valerie Galimi alla ricezione del processo in Italia e alla Shoah italiana anche con la registrazione inedita della deposizione in aula di Hulda Campagnano, unica testimone nata nella penisola, non si occupa solo della colpevolezza di Eichmann. Nell’esposizione si affrontano tutte le tappe e gli uomini del processo, le battaglie legali, i capi d’imputazione, la volontà del procuratore generale Hausner di farne un evento che documentasse ogni fase e aspetto della persecuzione dal ’33 al ’45 (come ricorda David Cesarani in catalogo), attraverso gli uomini e le donne che l’avevano vissuta, per dare ai fatti, a differenza di Norimberga che aveva usato soprattutto documenti scritti, una dimensione umana e un impatto drammatico.
Il processo fu trasmesso da tutte le radio e le televisioni del mondo. La Shoah uscì dalla sua aura fantasmica e divenne volti, lacrime, svenimenti, racconti puntuali. Per la costruzione della memoria nacque una nuova era, quella del testimone, delle voci che non si possono più cancellare, un rapporto vivente che parlava anche agli stessi giovani di Israele ponendo fine al silenzio che aveva circondato i sopravvissuti, ridandogli un’identità fondamentale, come spiega assai bene il saggio di Annette Wieviorka in catalogo. Sono parole e sguardi che potremmo ascoltare e vedere in parte nella mostra. Ed è importante ora che i testimoni se ne stanno andando. Deborah Lipstadt, vinta la causa contro lo storico negazionista Irving, ha scritto un libro proprio sul processo ad Eichmann. Perché? le è stato chiesto. Perché il negazionismo non è affatto scomparso e nel mondo arabo va per la maggiore, ha risposto, perché i testimoni sono fondamentali, perché bisogna ascoltare chi minaccia un popolo di sterminio: le parole deliranti del ’33 divennero fatti.
Eichmann fu condannato il 15 dicembre 1961, giustiziato a mezzanotte del 31 maggio 1962, cinquanta anni fa esatti. Il suo corpo fu cremato in un luogo segreto e le sue ceneri disperse nel Mediterraneo.
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