by Sergio Segio | 2 Gennaio 2012 9:17
Il richiamo al Patto del Lavoro del ’50 che puntava sullo sviluppo ROMA — Che cosa intendeva Giorgio Napolitano quando ha ricordato la sua «lunga esperienza vicino al mondo delle fabbriche e degli operai» e, con un gioco di paragoni storici, ha esortato lavoratori e sindacati a inserirsi «nel confronto con ogni realtà in via di cambiamento», a costo «di fare dei sacrifici»? Possibile che suggerisse, attraverso quelle parole, una disponibilità ad affrontare modifiche su questioni tabù come l’articolo 18 e il contratto unico? È da qui che dovrebbe partire, ai giorni nostri, il «sacrificio» cui alludeva? Mentre il 2012 si apre con l’evocazione dei rischi di un conflitto sociale (per quanto si sia già in parte sgonfiata la disputa sulla libertà di licenziamento), sono queste le domande che affiorano in certi ambienti politici e sindacali. Interrogativi che si teme persino di rendere pubblici, carichi come sono di sospetto da vecchie categorie ideologiche, anche se quel passaggio del discorso del presidente non ha in realtà bisogno di interpretazioni. Basta un po’ di memoria per capire che i precedenti da lui citati vanno al di là della richiesta di apertura a un dialogo scivoloso e difficile, proponendo invece un metodo: stare meno arroccati sulla difensiva (atteggiamento che comunque il capo dello Stato comprende, visto che ci sono fabbriche in crisi e posti di lavoro da tutelare) e più sulla linea della proposta. In modo di evitare — almeno in questa stagione — la solita strategia dello scontro frontale. Napolitano si riferisce ad alcuni momenti chiave del dopoguerra, durante i quali il sindacato prese importanti e autonome iniziative nella grande discussione dei problemi generali dell’Italia. Scegliendo così di non ridurre la propria azione a tutela delle singole categorie che rappresentava o alla pura contestazione delle politiche governative. C’è un esempio preciso, che va molto indietro nel tempo (e del quale è stato testimone diretto) e ci riporta al culmine dell’esperienza dei «consigli di gestione» nei quali fu coinvolto. Fu quando, nel febbraio 1950, Giuseppe Di Vittorio, carismatico leader della Cgil, presentò un «Piano del lavoro» con cui il sindacato si fece portatore di esigenze e indirizzi di sviluppo dell’economia. Si era all’indomani della vittoria democristiana alle elezioni del 18 aprile 1948 e il clima era tale che il maggior partito della sinistra era categoricamente all’opposizione. Bene: quella conferenza esercitò un tale stimolo positivo, un tale slancio che perfino il governo (attraverso i ministri Pietro Campilli e Ugo La Malfa) decise di presentarsi, pur essendo agli antipodi della sinistra politica. Ecco il retropensiero del capo dello Stato: se allora si riuscì a non far prevalere la logica del muro contro muro, perché non ritentare oggi qualcosa di simile? Analogo coraggio politico, visione sullo sviluppo (senza censure aprioristiche sul nodo della produttività ) e senso dell’interesse nazionale vorrebbe poi vedere riandando ad altre fasi del movimentato percorso del movimento sindacale: dall’autocritica della Cgil per non aver capito il rinnovamento tecnologico nelle fabbriche, alla mobilitazione della solidarietà nazionale, al congelamento degli scatti della scala mobile. Questa la sua idea. Cui si accompagna la sollecitazione a Mario Monti affinché sviluppi «il dialogo con le parti sociali e un rapporto aperto con il Parlamento». Certo, sono prospettive faticose per tutti. Esattamente come «faticoso» è stato il discorso di Capodanno per lui. Non solo perché vi ha condensato l’intero arco dei temi all’ordine del giorno: la crisi e i suoi costi sociali, l’Europa (che deve riconoscere e dare risposta ai nostri sforzi), la situazione politica e l’orizzonte del 2013 per il voto, le riforme, il welfare, i giovani e il lavoro, appunto. Ma perché, nonostante la gente sia oppressa da «dubbi che possono tradursi in scoraggiamento e pessimismo», ha tentato di infondere «motivi di fiducia» e di dettare l’agenda all’Italia. Ha quasi un profilo programmatico, insomma, il sesto messaggio del presidente. Rivolto in primo luogo al governo e ai partiti che lo sostengono, come alle figure più responsabili dell’opposizione. Con l’ammonimento che «l’emergenza resta grave» anche perché «lo Stato per lungo tempo è cresciuto troppo e ha speso troppo», che «lo sforzo di risanamento va portato avanti con rigore» e che, se si saprà «colpire una dilagante corruzione, parassitismo e diffusa criminalità », oltre a «una massiccia e distorsiva evasione fiscale», allora «i sacrifici, inevitabili per tutti, non risulteranno inutili» e in questa consapevolezza vanno accettati «per assicurare un futuro ai propri figli». E qui c’è un altro capitolo del messaggio che potrebbe essere equivocato, per interesse. Infatti, riconoscere che l’evasione è una «grande patologia» italiana potrebbe indurre qualcuno a recriminare: se le cose stanno così, e visto che lo si riconosce al massimo livello, non si può chiedere nulla ai cittadini che il loro dovere di contribuenti lo fanno. Sarebbe ovviamente una lettura fuorviante, una scappatoia da respingere, per un presidente che incita «tutti a fare la propria parte». Fermo restando che, certo, sradicare quel malcostume resta fondamentale e urgente come l’impegno a «rigenerare la politica». Marzio Breda
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