Il mito ambiguo della demokratia

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Fra il 508 e il 507 avanti Cristo, dopo la caduta della tirannide, l’ateniese Clistene stabilì i nuovi ordinamenti democratici; poco più di cento anni dopo, nel 399, Socrate venne condannato a morte da una giuria popolare, dopo essere stato accusato da un certo Meleto di non credere agli dèi e di traviare la gioventù con una falsa educazione. A sostenere quell’accusa c’era anche Anito, uno dei restauratori della democrazia ateniese dopo la dura tirannia dei Trenta, sorta e presto abbattuta qualche anno prima. 
Fra quelle due date c’è il V secolo a. C., forse il più importante e più studiato della civiltà  occidentale: ci sono le guerre persiane, con le vittorie di Maratona e di Salamina, c’è la fondazione dell’impero marittimo di Atene, il trentennio dominato da Pericle e poi la devastante guerra contro Sparta, che durerà  dal 431 al 404 fra grandi vittorie e rovinose sconfitte, fino alla caduta e allo smantellamento delle orgogliose mura cittadine.
Guerra e salario
Ma non basta: ricostruite quelle mura con denaro persiano, gli ateniesi fonderanno nel 378 una nuova Lega attica e dunque un nuovo impero, lo perderanno ancora circa trent’anni più tardi e inutilmente si ergeranno a difesa della tradizionale libertà  greca contro l’espansionismo macedone di Filippo e di Alessandro Magno, fino alla definitiva sconfitta del 322.
È questo il quadro temporale del nuovo libro di Luciano Canfora, Il mondo di Atene (Laterza, pp. 520, euro 22,00): un mondo che corrisponde da tempo al mito che su di esso è stato costruito, mito di democrazia diretta, assembleare, di partecipazione e passione politica, di grande arte – l’architettura e la statuaria, il teatro tragico e comico – sostenuta dallo Stato e da privati facoltosi, resa disponibile a delle platee corrispondenti in buona misura con la cittadinanza stessa. 
La parola «mito» è ambigua: rimanda a un racconto di fondazione, alla sintesi immaginosa di caratteri vastamente umani ritrovata però ogni volta in una declinazione spazio-temporale precisa; ma significa e contiene anche le prevaricazioni che quella facoltà  immaginativa usa infliggere alla realtà  dei fatti, prestandosi a edificare delle ideologie tutte volte al presente, che proprio la manipolazione mitologica assolutizza come radicate da sempre nell’animo umano. Per questo, già  da tempo incline a interrogarsi sulla democrazia e sulle sue prassi, Canfora intitola il suo primo capitolo Atene tra mito e storia, e indossa le lenti del più limpido e implacabile machiavellismo ricordando che solo l’esoso tributo elargito dai sottomessi «alleati» di Atene consentì alla città  dell’Attica la relativa stabilità  politica del V secolo, rappresentata al meglio proprio da Pericle, bene avvertito che «per ottenere consenso, non coatto, bisognava contemperare due elementi: il salario per tutti e la continua spinta ad ampliare l’impero, che significava guerra». 
L’esilio di Euripide
A scanso d’equivoci, poi, fin dalle prime pagine Canfora torna su due celebri definizioni della democrazia ateniese, la prima di Max Weber, secondo cui essa non fu che «una gilda che si spartisce il bottino», la seconda di Tocqueville, che ragionando sul rapporto numerico fra cittadini effettivi (circa 20.000) e schiavi o stranieri (oltre 300.000), affermò che «Atene, col suosuffrage universel, non era, in fondo, che una repubblica aristocratica dove tutti i nobili avevano un diritto uguale al governo».
Per analizzare a fondo cosa realmente fu il mondo di Atene, dunque, anche a fronte della perdurante oligarchia in auge presso l’eterna nemica Sparta, occorre chiedersi cosa fu la democrazia ateniese sia per i cittadini che ne sfruttarono le possibilità , sia per gli oppositori interni e gli «alleati» stranieri che ne subirono i soprusi, sia ancora per la grande riflessione storica di un Tucidide e di un Senofonte, o ancora per il dibattito costituzionale che interessò la città  dopo la sconfitta e la tirannia dei Trenta, sia infine per le soluzioni utopistiche immaginate nel IV secolo da Platone (la celebre Repubblica degli anziani filosofi), Falea di Calcedone e lo stesso Senofonte. 
Ora, per molti lettori tradizionali, che nei secoli scorsi hanno affermato comunque l’esemplarità  metatemporale del regime ateniese, il problema è stato quello di giustificare la violenza di Atene nei confronti delle città  sottomesse, l’imposizione stessa del tributo («La democrazia e l’impero erano nati insieme», ribadisce Canfora), le scelte dissennate operate dai leader popolari e ratificate dall’Assemblea, come quella dell’attacco a Siracusa (415-413), o la condanna intollerante dei filosofi Anassagora e Socrate, la lunga ostilità  che spinse un genio apolitico come Euripide all’esilio, e non ultima la stessa sconcertante cedevolezza delle istituzioni democratiche nei confronti dei Quattrocento oligarchi che s’imposero brevemente nel 411 e dei Trenta di sette anni dopo.
Parole di rottura
Canfora risponde che non di giustificare si tratta, ma piuttosto di capire che tutti questi passaggi tragici non siano stati delle deviazioni dalla buona norma, o degli infortuni magari determinati da una eccessiva pressione degli eventi. Demokratia, infatti, vuol dire «egemonia del demo», e nasce «come termine polemico e violento, coniato dai nemici del demo», non dunque «come parola della convivenza politica, ma come parola di rottura», che esprime «la prevalenza di una parte più che la partecipazione paritetica di tutti indistintamente alla vita della città  (che è espressa piuttosto da isonomia)», giacché «tò à­son è, al tempo stesso, “ciò che è uguale” e “ciò che è giusto”». Tanto è vero che Canfora può dare conto di un apparentemente paradossale «egualitarismo antidemocratico», «rivendicazione dei diritti dei “ricchi” in nome dell’uguaglianza» contro le frequenti requisizioni e denunce penali, per mettersi al riparo dalla corruzione e dalla sfrenata demagogia. 
Con questo, siamo già  vicini al senso complessivo del libro. È certo, infatti, che la forza argomentativa di Canfora si basa non solo su una sconfinata memoria connettiva di brani, fasi politiche e somiglianze individuali, ma anche sulla volontà  acuminata di trattare gli argomenti di storia antica (e penso anche al suo recente Cesare, dittatore democratico) con la stessa minuzia d’indagine con cui siamo abituati a leggere gli eventi più prossimi e dunque, nella comune miopia, davvero decisivi. Da questo punto di vista, Canfora allude di continuo al presente senza mai nominarlo con il fatto stesso di decostruire gli eventi del V e IV secolo a. C. con la stessa smitizzante acribia che occorre per distinguere oggi le notizie dagli eventi. Le sue sono perigliose controinchieste indiziarie, capaci di svelare nietscheanamente le curvature ideologiche e le falsità  pretestuose, le omissioni interessate e le tradizioni esclusive, attribuendo a ognuno dei protagonisti della sua storia ateniese la responsabilità  delle proprie affermazioni, e magari delle proprie menzogne. 
L’eroe Alcibiade
Da una parte, così, Canfora ci appare come un manzoniano che parla del 411 a. C. per alludere al 2012, magari mutuando dal «suo» Tucidide la convinzione di una «sostanziale immutabilità  della natura umana»; dall’altra, però, la sua critica storico-etimologica del sistema democratico lo spinge ad affidarsi a una parata di grandissime personalità , quelle che il tempo (aristocratico in sé) ha selezionato nel naufragio della cultura antica. Ecco allora, sullo sfondo della demokratia, le gigantesche figure di Efialte, Pericle, Antifonte, Alcibiade, Isocrate, Demostene, oggetti di ritratti individuali magari preterintenzionali, e ogni volta debitamente calati in situazione, ma inaggirabili. 
Allo stesso modo, la particolareggiata ampiezza e la vigoria narrativa con cui Canfora affronta le convulsioni del 415-403, dalla «mutilazione delle Erme» al definitivo ma perdente ritorno alla democrazia, raccontano marxisticamente di una storia come conflitto, se è vero che quelle convulsioni svelano dialetticamente la natura della democrazia, il rischio che essa comprende, di quale catastrofe essa sia il fondamento e al tempo stesso lo schermo. Così, col suo anticonformismo aristocratico e col suo estremismo democratico, con la sua fluidità  enigmatica ora disastrosa ora trionfatrice, sembra essere Alcibiade l’eroe eponimo di questa Atene libera, feroce e drammatica, eternamente «troppo giovane», inconsapevolmente classica e perennemente immatura, cui Canfora sottrae la piatta esemplarità  della perfezione per sostituirla con la mossa rappresentanza del «tragico politico».
Il libro si chiude di fatto con un mirabile capitolo su Demostene, l’«arretrato» difensore delle libertà  greche contro l’arrembante potenza macedone. Ed è un finale che accusa il facile progressismo di chi sbeffeggia coloro che non capiscono in tempo chi vincerà , o sta per vincere, e non si accodano alla maggioranza. Se la democrazia è nata ad Atene solo con l’impero e la schiavitù, finita l’«età  della potenza» il IV secolo si è trascinato fra continue collisioni fra poveri/ricchi, strapotere dei tribunali, leaderismo e professionismo di un inamovibile personale politico, egemonia del tema economico, proposta utopica. Tutto ciò, fino alla caduta sotto un’autocrazia che già  il suo principale nemico, appunto Demostene, riconosceva più rapido ed efficiente di quello democratico. 
Un tramonto prepotente
Qui la bifocalità  machiavellica di Canfora giunge al culmine: sta parlando del nostro destino prossimo? I processi della globalizzazione impongono gestioni politiche autoritarie? L’irresistibile preponderanza del capitalismo centralizzato cinese e la tutela che le oligarchie finanziarie esercitano sui governi eletti sembrano rispondere di sì. Durante il suo lungo tramonto, la democrazia ateniese divenne tanto prepotente quanto astratta. 
E se Canfora, in omaggio ai suoi maestri del sospetto, ha ricondotto a una morale e a una politica parziali ogni riassetto generale della Storia, si starà  chiedendo quanto fatale e inevitabile è l’orizzonte che ci fa balenare davanti.


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