by Editore | 16 Gennaio 2012 7:21
L’altro giorno, mentre era sballottolato in tram sui saliscendi di San Francisco, Mister Translate ruminava tra sé e sé il linguaggio degli elfi che J. R. Tolkien inventò per Il Signore degli Anelli. “A-mon-tah Dee Toy-ah”: Maledizione! «Stavo cercando di capire quanto fosse complicato: Tolkien voleva creare una lingua che avesse le caratteristiche di una parlata antica, classica, e venne fuori questo linguaggio tutto centrato sulle inflessioni – come quelle su cui ci stiamo concentrando adesso». Calma, calma: qui ci vuole una bella traduzione. Che c’entra Il Signore degli Anelli col signore di Google Translate, la Terra di Mezzo con la Silicon Valley? E soprattutto: che cosa sono queste maledettissime inflessioni? Nel bunker del Building 43, l’ingresso principale ai segreti del mondo Google, il dottor Ashish Venugopal miscela Tolkien e la Bhagavad Gita, le dichiarazioni dell’Onu e l’ultimo studio di glottologia. Il giovane Venugopal, 33 anni, indiano dell’Hyderadab, laurea in computer science alla Carnegie Mellon, immerso nelle lingue già da bambino, quattro dialetti in casa più l’inglese, infanzia tra l’India e Singapore («Tutti cinesi o malesi: ho sempre visto i film nella lingua sbagliata») è il genietto della lampada di Translate, il “research scientist” del sito che ha cambiato la vita alle centinaia di milioni di persone che ogni giorno, in ogni parte del mondo, affidano a Internet la speranza di farsi capire da chi parla letteralmente un’altra lingua. «In nessun altro settore puoi utilizzare la scienza dei computer per realizzare qualcosa di magico: e non è una magia riuscire a parlare con i computer?».
Dice proprio così il dottor Venugopal: parlare. Perché è a quello che puntano adesso gli scienziati di Translate. Non più solo tradurre ma direttamente parlare un’altra lingua: usando le applicazioni vocali che sono gli ultimi sviluppi dell’avventura cominciata ormai dieci anni fa da Franz Ochs, lo scienziato adesso traslocato allo sviluppo di Android, il sistema operativo con cui Google sfida l’iOS di Steve Jobs. «Un’amica mi ha raccontato la storia di una immigrata che parlava soltanto spagnolo ed era stata chiamata dall’insegnante a scuola perché il figlio proprio non ne voleva sapere. Lì non ci voleva un genio per capire che il problema era la lingua. Ma quella professoressa ha cominciato a digitare sul telefonino usando Google Translate. La signora è scoppiata a piangere: nessuno, ha detto, aveva mai fatto lo sforzo di farsi capire da una poveretta come me».
E pensare che era cominciato tutto con una simpatica truffa. La prima persona che Mister Translate conquistò con le sue traduzioni fu la ragazza che sarebbe diventata la moglie. «Io sono del sud e lei del nord dell’India: due mondi a parte, anche linguisticamente parlando. Avevamo cominciato a chattare via computer e sempre in inglese: la lingua comune. Andava avanti da due settimane e finalmente le strappo un appuntamento: così, le dico via web, potremo finalmente parlarci in hindi. E lei: ma tu non parli tamil? Sì, ma ho imparato l’hindi. Lei: in due settimane? Impossibile: provamelo! E io, in hindi quasi perfetto: ora no, sono un po’ stanco, devo andare a dormire. E lei stupita, sempre in inglese: mi prendi in giro? E io, ancora in hindi: come potrei, sai che ti amo tanto… Il trucco? Avevo scoperto un sito di canzoni hindi con la traduzione inglese. E raccogliendo una parolina qui e una parolina là avevo ricostruito delle frasi-tipo. Sì, magari il mio hindi era bizzarro, con tutte quelle rime. Ma funzionò. Quando ci incontrammo dovetti confessare che era una burla. Intanto, però, Priyanka mi aveva già detto di sì».
Non fu solo un’intuizione: dietro c’era già uno studio appassionato. «Le lingue funzionano tutte allo stesso modo. Ognuna deve saper comunicare chi fa che cosa, come viene fatto, quando viene fatto e dove». Chi, come, dove, quando: aggiungi perché, ed è anche la domanda a cui risponde la legge fondamentale del giornalismo. «Appunto: il perché. Ogni lingua sceglie di farlo in un modo diverso. Alcune disponendo le parole in un certo ordine. Altre aggiungendo alle parole certe lettere: le desinenze. Altre lasciando al contesto il compito di far emergere il significato. Ecco perché la prima domanda che dobbiamo farci è: in che modo questa particolare lingua risponderà a queste esigenze che sono universali? In che modo l’arabo mi indicherà qual è il soggetto e quale l’oggetto? In che modo la tua lingua mi aiuterà a distinguere il significato in un frase in cui c’è la parola ‘palla’ e il verbo ‘toccare’? Io tocco la palla. Oppure: io vengo toccato dalla palla».
Sembra di essere tornati a scuola. Solo che il dottor Venugopal ha un aiutino che i ragazzi di tutto il mondo se lo sognano: il computer più potente della terra. «Quando sono arrivato a Google abbiamo rivoluzionato il modo in cui venivano fatte le traduzioni. Fino ad allora anche nei siti Internet l’approccio era quello classico. Noi abbiamo scelto quello statistico. Se io chiedo: come si traduce questo in italiano?, la risposta classica sarà : applica questa regola. L’approccio statistico invece dice: non preoccuparti di fornirmi le regole, ma aiutami a produrre qualcosa che possa funzionare sempre, magari con errori, ma possa funzionare sempre».
La scommessa è la mole di dati. Google scava tra le traduzioni di una stessa dichiarazione in tutte le lingue dell’Onu, pesca tra i classici della letteratura e delle religioni. «Per avere un’analogia di come funziona la macchina pensiamo a un ristorante cinese». È lo stesso procedimento con cui il dottore imparò a “parlare” hindi con la fidanzata. «Io non conosco le regole del cinese ma leggo prima la traduzione inglese, ‘Manzo in Agrodolce’, e prendo nota delle due parole cinesi. Poi leggo la traduzione di un altro piatto, ‘Vegetali in Agrodolce’, e rivedo quello stessa parola cinese usata per ‘Agrodolce’. Poi mi sposto su un altro piatto ancora, ‘Zuppa Vegetale’, e rivedo quella parola che ho incontrato prima e significa ‘Vegetale’. A questo punto sarò o no in grado di prevedere come si dice in cinese ‘Vegetale in Agrodolce’ – senza leggere la traduzione in inglese?».
Beh, certo, senza la potenza del computer moriremmo tutti di fame prima di potere riuscire a ordinare anche una zuppa. Ma perfino la macchina ha i suoi problemini. Su cui il team del dottor Vanugopal continua a lavorare. Due i principali. «Prendete le traduzioni dall’italiano all’inglese e viceversa. Ormai funzionano abbastanza: ma soprattutto le prime. Perché nella vostra lingua suonano a volte un pochino più impacciate? È il problema delle inflessioni: l’accordo tra soggetto e verbo». Se un bambino inglese declina il verbo “giocare”, ha solo due desinenze: “pla-y” vale per io, tu, noi, voi e loro, con “pla-ys” che gioca solo per la terza persona. Pensate all’italiano: io gioc-o, tu gioch-i, egli gioc-a, noi gioch-iamo, voi gioc-ate, essi gioc-ano. Il povero computer avrà da lavorare, eh? «Come tutte le lingue romanze, l’italiano invece dà pochi problemi nel cosiddetto ordino-riordino, che riguarda cioè le posizioni delle parole nella frase. Però se ci spostiamo, per esempio, al giapponese, qui l’ordine delle parole è tutto da ricostruire».
Ma c’è una lingua più difficile delle altre? Anche qui, non valgono le regole che un traduttore dovrebbe sudare, ma le caratteristiche al vaglio del computer: «Una lingua più difficile è una lingua che ha pochi dati sul web. Grande differenza nel riordino delle parole. E un gran numero di inflessioni».
Ironia della sorte. Tra le decine e decine di lingue che il dottore ha messo sul web («Ora abbiamo anche il latino, gli studenti di tutto il mondo sono serviti… «) le ultime cinque arrivate – cioè le più difficili – sono proprio quelle made in India: tutte infarcite di riordino e inflessioni. Ma come: non era così semplice tradurre l’hindi con le canzoni? Mister Translate adesso sorride. Con quello scherzo ha conquistato una sposa: ma “semplice” è una parola che neppure gli elfi di Tolkien riuscirebbero mai a tradurre.
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