by Editore | 24 Gennaio 2012 7:04
Il ribellismo siciliano è sempre stato portatore di disgrazie. Anche per l’Italia. Ogni volta che laggiù si parla di «zona franca» e rigurgiti indipendentisti si materializzano con moti di rivolta, c’è da stare sicuri che non si annuncia mai nulla di buono. La sommossa partita dall’isola – per fame e per disperazione dicono loro, gli insorti – è una febbre che ha contagiato il resto del Paese. Dalla Calabria al Piemonte, l’Italia è ferma. Sta accadendo tutto in questi giorni, con rivendicazioni e obiettivi che solo apparentemente sono gli stessi. In Sicilia si è acceso un fuoco che sarà molto difficile da spegnere.
La testa del serpente è lì. Non sappiamo se dietro ai disordini «ci sia la mafia», come ha subito avvisato il presidente di Sicindustria Ivan Lo Bello. Di certo ci sono forze e milizie che hanno bisogno di farsi vedere, di farsi riconoscere a Roma da Monti e dal suo nuovo governo. Vogliono aprire un «tavolo». I blocchi dei padronicini e dei “forconi” portano solo un messaggio: siamo qui e siamo tanti, voi di Roma dovete fare i conti con noi.
Noi chi? E’ la solita Sicilia che cambia e non cambia mai. Con un Pdl allo sbando, con un Berlusconi che non è più garante e non è più condottiero, il ventre molle dell’isola ha la necessità di una sua rappresentanza. E quali facce e quali personaggi più adeguati e convenienti avrebbero potuto simboleggiare meglio questa voglia di «rivoluzione», se non questi vecchi arnesi del sottobosco politico siciliano?
Mariano Ferro, allevatore di cavalli di Avola, ex Forza Italia, ex Movimento per l’autonomia, in buoni rapporti con l’ex ministro dell’Agricoltura Saverio Romano sotto inchiesta per mafia. Giuseppe Richichi, quello di Tir selvaggio, consulente di Totò Cuffaro quando era il padreterno della Regione prima di finire a Rebibbia. Martino Morsello, un passato da socialista, ma un presente di estrema destra con Forza Nuova.
Eccoli gli uomini senza macchia e senza peccato che innalzano barricate, la “Forza d’Urto” che marcia su Roma sputando sulla «vecchia politica», scavalcando sindacati e associazioni di categoria.
E’ una Sicilia dei Gattopardi raffigurata, questa volta grossolanamente ma efficacemente, da questi uomini che hanno messo in ginocchio una regione con i suoi cinque milioni di abitanti. Sono cresciuti tutti nel brodo del sicilianismo reclamizzato negli ultimi anni dal governatore Raffaele Lombardo, anche lui un altro ferro arrugginito della Dc più preistorica ma che è riuscito furbescamente a riciclarsi come moderno.
Il 13 marzo del 2008, alla vigilia della sua trionfale elezione a Palazzo d’Orlèans, era nella sua patria – Caltagirone – davanti a un coloratissimo carrettino siciliano con issato un grande cartello: «Benzina a metà prezzo in Sicilia». Lo stesso slogan gridato in questi giorni a ogni incrocio fra Palermo e Catania. Come quell’altro, di ieri mattina: «Vogliano una moneta siciliana». Il governatore Lombardo non è solo in questa battaglia secessionista. C’è anche l’ex uomo immagine di Berlusconi a Palermo, Gianfranco Micciché. Da Forza Italia al Pdl, dal Pdl al “Grande Sud”. Un altro «rinnovatore».
In nome della Sicilia ai siciliani.
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