by Editore | 18 Gennaio 2012 9:43
PECHINO — La Cina che nel 1949 — secondo l’immagine di Mao Zedong — si alzò in piedi prendendo in mano il proprio destino, si è messa convintamente sottosopra. Una seconda rivoluzione, incruenta e radicale. Per la prima volta nella sua storia, infatti, la Cina ha più abitanti nei centri urbani che nelle campagne. L’assalto dei contadini alle città — feticcio ideologico, strategico e militare di Mao — ora è realtà , per quanto non definitivamente compiuto. Il travaso di forza lavoro continuerà ancora, tuttavia l’annuncio dell’Ufficio statistico nazionale ha certificato i nuovi equilibri. Il 51,27% dei cinesi vive nelle megalopoli, nelle metropoli, nelle città di secondo, terzo, quarto livello, e le campagne andranno avanti a dissanguarsi, nel nome dello sviluppo.
È un modello che tiene, sebbene con affanni. Proprio ieri Pechino ha diffuso i dati sulla crescita nel 2011. Superata di slancio la soglia non soltanto psicologica dell’8%, il Pil cinese ha toccato il più 9,2%, anche se un quarto trimestre a 8,9 fa registrare il minimo da due anni a questa parte. I tassi di crescita a due cifre (era 10,4% nel 2010) vanno collocati tra i ricordi. In crescita, ma meno vigorosa che in passato, è la produzione industriale, più 13,9%, così come in frenata sono anche i consumi al dettaglio, più 17,1%. I mercati internazionali hanno interpretato il bollettino di Pechino in termini positivi, con la Borsa di Shanghai che è balzata all’insù oltre il 4%. Sullo sfondo, la difficoltà del settore immobiliare, che si sta fermando e lascia temere sviluppi drammatici.
Il più 9,2% del Pil 2011 è figlio proprio del sistema plasmato dal ricorso a una (finora) abbondante, (finora) conveniente, (finora) duttile manodopera trasferita dalle campagne alle città . Tra il 70% di popolazione rurale dell’India e l’82% di popolazione urbana degli Stati Uniti, la Cina si allinea con le proporzioni complessive dell’umanità , 51% nelle città e 49% nelle campagne. I flussi migratori interni trovano una loro brutale, fisica evidenza nella frenesia di questi giorni che precedono il Capodanno lunare, quest’anno il 23 gennaio, lunedì prossimo. Ma sono le prospettive a medio e lungo termine a contare. Secondo un gruppo di lavoro della Conferenza consultiva (una sorta di parlamento minore), nei prossimi vent’anni altri 300 milioni di contadini da inurbare saranno «d’importanza vitale» per lo sviluppo del Paese. Già ora — si legge nell’indagine, resa nota un paio di settimane fa — della nuova generazione di migranti interni, l’84,5% non è stato impegnato nell’agricoltura, il 30% non ha appezzamenti di terreno e il 92,3% lascia i campi con la precisa intenzione di non farvi ritorno.
Inquietano i segnali che provengono dall’industria. Le aziende inaugurano poli produttivi nell’entroterra, una volta bacino a cui attingere per riempire gli stabilimenti del Guangdong e lo Zhejiang, sulla costa. La manodopera non appare più così abbondante e comunque gli stipendi aumentano. Il Partito comunista, che in autunno rinnoverà la leadership propria e dunque del Paese, è chiamato a una colossale operazione di ingegneria sociale, nella quale rientrano la gestione degli hukou (i certificati di residenza), i diritti sulle terre evocati di recente dal premier Wen Jiabao, la pratica degli espropri, la tutela dei diritti di base, il contenimento degli «incidenti di massa». Gli strumenti politici sono ben coltivati, lo dimostra come il Partito sia riuscito a disinnescare la protesta del villaggio di Wukan, dopo mesi di tensione culminati con la rivolta di dicembre e un morto, a capitalizzare il ruolo di pacificatore e a governarne la normalizzazione: il leader della ribellione, Lin Zuluan, è stato cooptato e nominato segretario del Pcc del villaggio. Un giorno, però, certe risorse potrebbero non bastare più.
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