Il Fmi: servono 500 miliardi
BRUXELLES — Questa è la dimensione vera della crisi: il Fondo monetario internazionale punta a raccogliere 500 miliardi di dollari (circa 389 miliardi di euro, ndr) da impiegare in nuovi prestiti per i Paesi in difficoltà , raddoppiando così le sue disponibilità attuali. In parte, 200 miliardi di dollari, sono fondi aggiuntivi già messi a disposizione dall’Unione Europea. Ma il resto, non sarà facile trovarlo: sia il Tesoro americano che la Gran Bretagna hanno fatto sapere che non offriranno altri contributi. L’Europa «ha la capacità di risolvere i propri problemi, l’Fmi non può sostituirla», dice Washington, e Londra fa capire più o meno apertamente che tocca ai Paesi dell’Eurozona aprire la borsa. Perché la crisi è soprattutto la loro.
È quasi una porta sbattuta in faccia per Christine Lagarde, direttrice generale dell’Fmi che con quelle cifre aveva marcato le dimensioni complessive della voragine (totale: 1.000 miliardi di dollari come «bisogni di finanziamenti potenziali mondiali nei prossimi anni», e il «bisogno» più grande è naturalmente quello europeo). Ma soprattutto, la richiesta dell’Fmi e i primi rifiuti sono la conferma di quella che il presidente francese Nicolas Sarkozy definisce apertamente «situazione molto pericolosa».
Mancano 11 giorni al nuovo vertice dei capi di Stato e di governo della Ue, e un accordo vero non c’è ancora, e il panorama è sempre più nebbioso. L’intera zona euro è «ai margini della recessione tecnica», dice il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker. Uno dopo l’altro si allineano gli altri segnali di tempesta: anche la Germania di Angela Merkel taglia le sue previsioni di crescita economica per il 2012, dall’1% allo 0,7%; e l’agenzia di rating Fitch preannuncia un nuovo declassamento di due tacche per l’Italia, mentre Moody’s parla di recessione italiana per il 2012; e la World Bank, la Banca mondiale, tronca anch’essa le previsioni di crescita della ricchezza nel 2012 per tutti, compresi i Paesi emergenti finora sfuggiti alla crisi (da + 6,2% a 5,4%).
Certo, vi sono anche segnali positivi: la stessa Merkel che si dice «non pessimista» sui progressi del negoziato pre-vertice, e sulla sorte del «suo» «fiscal compact», il progetto di patto di bilancio che dovrebbe calamitare le firme di 26 Paesi su 27 inchiodandoli alle esigenze del rigore. Ma c’è anche il Parlamento europeo che boccia quello stesso patto; e voci sparse che lo frustano: non basta il rigore, ci vuole anche la crescita, dicono in coro il premier olandese Mark Rutte, quello belga Elio Di Rupo, quella danese Helle Thorning-Schmidt (presidente di turno della Ue) e il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso.
Germania e Francia stanno saldando nuovi accordi intorno alla tassa sulle transazioni finanziarie. Ma tutt’intorno alla locomotiva tedesca, si leva un brusio di critiche. Il problema è che nessuno dei contestatori sa indicare un’alternativa precisa al patto di bilancio: e questo accresce la nebbia complessiva. Anche Sarkozy, colui che più ha legato il suo nome al piano tedesco, ora sembra prendere le distanze: «Il problema è la governance europea — avrebbe detto in una registrazione fuori onda captata dal settimanale satirico Le Canard Enchaine — e noi paghiamo cara l’ortodossia tedesca».
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