Il diritto naturale all’insolvenza

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L’attuale crisi europea, fra i tanti effetti negativi sulla vita di milioni di persone, ha avuto però il merito di sviluppare una nuova letteratura eterodossa e alternativa, in grado di fornire utili strumenti per una analisi e una politica economica non liberista. Un buon esempio in tal senso è costituito al libro collettivo Debitocrazia. Come e perché non pagare il debito pubblico (Edizioni Alegre, pp. 172, euro 15, a cura di D.Millet e E. Toussant, con post-fazione di Salvatore Cannavò). I due autori appartengono al Comitato per l’annullamento del debito al Terzo Mondo (Cadtm), fondato nel 1990 e non sono economisti stretti: il primo è professore di matematica, il secondo è dottore di ricerca in Scienze Politiche. Il non essere economisti di professione, consente loro di affrontare il tema della crisi del debito in modo meno astruso e servile, con una lente più interdisciplinare e non per questo meno rigoroso.
Un audit internazionale
Il testo è una raccolta di brevi saggi molto chiari e comprensibili anche per un pubblico non addetto, per lo più scritti da Eric Toussant, che ripercorrono le tappe della crisi del debito dagli anni Novanta ad oggi, mettendo in luce come questo sia passato dall’essere una prerogativa dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo (secondo l’accezione dell’epoca) a una costante dei paesi occidentali (del Nord, secondo un’accezione un po’ retrò), dopo il 2007. In questo paradigmatico passaggio di testimone, si sottolineano i cambiamenti giuridico-costituzionali che hanno caratterizzato l’evoluzione in senso democratico di molti paesi dell’America Latina. In particolare risulta interessante il caso dell’Equador: nella costituzione di questo Stato (art. 291-292), adottata a suffragio universale nel settembre 2008, vengono definite le condizioni alle quali le autorità  del paese possono contrarre dei prestiti, si consente la non restituzione dei debiti illegittimi (per esempio, quelli costituiti dalla capitalizzazione di interessi in ritardo – anatocismo -, pratica corrente dei creditori membri del Club di Parigi).
Si cominciano così ad introdurre dispositivi giuridici nel diritto internazionale, che vale la pena analizzare, anche perché non sono altro che la riproposizioni di diritti già  esistenti, almeno formalmente. Ad esempio, il principio pacta sunt serranda, consacrato nell’art. 26 della Convenzione di Vienna del 1969, non è assoluto e non vale se non per «i debiti contratti nell’interesse della collettività ». Questo è il punto chiave. Secondo il diritto internazionale, la valutazione dell’interesse generale e la determinazione del carattere lecito o illecito del debito derivano dalla competenza delle autorità  pubbliche. La messa in atto di un audit dei debiti da queste autorità  per identificare questi debiti illegittimi non solo è legale ma dovrebbe far parte delle prerogative di un «buon governo democratico». Ne consegue che la richiesta di una ristrutturazione, ripudio o annullamento del debito non avviene al di fuori delle regole imposte dal diritto internazionale, almeno in tre casi, tutti ampliamente riconosciuti non solo dalla Convenzione di Vienna, ma anche da quella dell’Aja del 1930 e dalla Commissione del Diritto dell’Onu: causa di forza maggiore («un avvenimento imprevisto ed esterno da colui che lo invoca, …, che lo mette nell’incapacità  assoluta di rispettare gli obblighi internazionali», Onu, 1978); stato di necessità  (che interviene quando il pagamento del debito comporta conseguenze sugli standard di vita dei cittadini considerate eccessive); cambiamento fondamentale delle circostanze (ad esempio la decisione della Federal Reserve di aumentare i tassi d’interesse nel 1979). 
Il default del neoliberismo
Tra i debiti illegittimi e i prestiti «odiosi», inoltre, è possibile ravvisare una lunga casistica: si passa dai debiti prodotti da una colonizzazione, a quelli creati dall’acquisto di armi (come per gli F35 comprati dall’Italia), al debito pubblico creato per ripagare i debiti privati (come nel caso dell’intervento statale per far fronte alle falle di bilancio delle istituzioni creditizie dopo la crisi dei subprime del 2007), ai prestiti concessi ad una dittatura, a quelli condizionati dall’aggiustamento strutturale o dettati dalla costruzioni di progetti non redditizi che arrecano danno alle popolazioni e/o all’ambiente.
Partendo da queste considerazioni, nel testo sono raccontati alcuni case-study di debito illegittimo, che, sulla base di un audit pubblico, potrebbero configurare l’opzione della ricontrattazione e il parziale annullamento del debito, verso la pratica di un default controllato. L’attenzione è particolarmente rivolta, oltre al caso dell’Argentina del 2000, alle più recenti situazioni che hanno caratterizzato per un verso Islanda e Irlanda, e per un altro la Grecia. Nel caso delle due isole nordiche, si tratta di due eclatanti esempi del fallimento delle politiche neoliberiste, mentre la Grecia rappresenta un caso da manuale di debito illegittimo e di come le politiche di austerity e rigore siano destinate al fiasco più totale: un monito alle recenti e simili decisioni prese anche da altri governi europei (come Italia, Spagna e Portogallo, e ora, Ungheria) sotto i diktat della speculazione finanziaria.
Il libro si chiude con un ultimo capitolo che riporta una lunga citazione (poco nota) di Marx, tratta da Il Capitale, in cui tra l’altro si afferma: «Il debito pubblico, …, imprime il suo marchio all’era capitalista». Tale citazione avrebbe potuto essere accompagnata da un’altra citazione di Marx tratta da Indirizzo alla Lega comunista (Londra, marzo 1850): «se i democratici chiedono la regolamentazione del debito dello Stato, i lavoratori devono esigere la bancarotta nazionale». 
Nella postfazione di Cannavo, compare infine un utile approfondimento sulla situazione italiana. Un libro sicuramente da leggere.


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