Il campo del dominio

by Editore | 24 Gennaio 2012 7:13

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Dieci anni fa, giorno per giorno, moriva Pierre Bourdieu. Ma quanto ci manca il grande sociologo francese (1930-2002)! Lo vorremmo qui, proprio in questa fase in cui la violenza simbolica, di cui tanto scrisse e che tanto chiarì, si esercita con ferocia inaudita azzerando le distanze. Che altro è se non violenza simbolica allo stato più puro il verdetto di retrocessione di uno stato emesso da un’agenzia di rating? Quell’agenzia è apparentemente inerme, non dispone né di eserciti, né di armi (si potrebbe parafrasare in questo caso la famosa, sardonica domanda di Stalin «Ma di quante divisioni dispone un’agenzia di rating?» e il sarcarsmo sarebbe altrettanto malposto quanto quello originale che si riferiva al Vaticano). Eppure il mondo intero si piega alle sue sentenze, paesi orgogliosi della propria grandeur vengono umiliati pubblicamente e – quel che più conta – nessuno osa contestare né i verdetti né i giudici.
Infatti quel che più stupisce in questa fase è la passività  con cui i popoli subiscono la selvaggia repressione sociale cui sono sottoposti. Qualche protesta, certo. Ma niente di serio. Conquiste duramente ottenute con decenni, a volte con secoli di lotte furibonde vengono cedute, abbandonate sul campo con una indifferenza sconcertante. Di fronte a tanta apatia sorge spontanea la domanda: quale è la ragione della «sorprendente facilità  con cui i dominanti impongono il loro dominio?» (in Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action). E questa è proprio la domanda chiave che Bourdieu si pone e da cui deriva la sua teoria del dominio: «come è possibile che un ordine sociale palesemente fondato sull’ingiustizia possa perpetuarsi senza che venga posta la questione della sua legittimità ?», per formularla nei termini usati da Gabriella Paolucci nella sua Introduzione a Bourdieu (Laterza).
Proprio le agenzie di rating ci mostrano la rilevanza e la profondità  delle domande che Bourdieu si pone: da dove deriva la loro legittimazione? cosa ci impedisce di mettere in discussione l’arbitrarietà  del loro dominio e ci impone di riconoscerlo, accettarlo e subirlo come legittimo?
Intendiamoci, la violenza simbolica non è mai disgiunta dai rapporti di forza oggettivi che la rendono possibile, né dalla violenza fisica che sullo sfondo si staglia all’orizzonte: ma il processo di legittimazione di un dominio consiste proprio nel fatto che la violenza simbolica, «dissimulando i rapporti di forza su cui si basa la sua forza, aggiunge la propria forza, cioè una forza specificatamente simbolica, a questi rapporti di forza» (La reproduction). Nella violenza simbolica c’è sempre un’atto di dissimulazione.
La violenza simbolica è tale perché opera attraverso i simboli e sui simboli, ma i suoi effetti non hanno niente di simbolico: gli anziani che perdono le pensioni, i malati che non saranno più curati sono quanto di più materiale e meno simbolico si possa immaginare, ma se il verdetto può avere questi effetti è perché la legittimità  della sentenza è interiorizzata da chi la subisce. L’effetto su colui che subisce una violenza simbolica è di essere messo nella condizione di pensare che non sta subendo alcuna violenza. La violenza simbolica agisce sulle categorie cognitive del dominato che, per pensare il proprio rapporto con il dominante, dispone solo di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata della struttura del rapporto di dominio, fanno apparire tale rapporto come naturale» (Méditations pascaliennes).
È questo il meccanismo per cui ci appare «naturale» che una retrocessione formulata da una ditta privata in un paese lontano abbia come effetto diretto che un giovane non può più frequentare l’università  o un lavoratore deve essere licenziato.
Noi la vediamo tutti i giorni all’opera questa violenza simbolica, questo «potere di dire ciò che è e di far esistere ciò che si enuncia» (Méditations pascaliennes). Ci dicono che esiste un’entità  plurale eppure singolare chiamata i Mercati ed ecco che per un gioco d’«impostura legittima» questa entità  acquista una sua esistenza autonoma che viene riconosciuta e temuta.
Naturalmente il gioco della violenza simbolica è insieme più sottile e più efferato, ma a noi manca disperatamente un pensatore – e un osservatore pensante – che riporti alla luce la sua natura di violenza dissimulata, proprio per effetto della coercizione simbolica, sotto le forme del «naturale», dell’«inevitabile», «inesorabile»: è «naturale» che vi siano sfruttati (e sfruttatori), che alcuni guadagnino 10.000 volte più della media dei propri dipendenti, la legge «di mercato» è una «legge di natura» come la gravitazione universale.
È qui che entra in campo il rapporto tra la sociologia e la politica. Che non può essere – come è così spesso, e in modo tanto sconsolante nei nostri giorni – un non rapporto. Ma che non può essere nemmeno quello dell’intellectuel engagé alla Sartre che grida il suo impegno politico, il suo essere di parte. Perché non serve a nessuno.
C’è invece bisogno di un sociologo come Bourdieu che si situi (come lui fece per tanti anni, fino al 1990) «al di qua» della politica, perché la guarda come un campo relativamente autonomo, in cui gli agenti operano spinti dalle proprie traiettorie sociali, dai propri habitus. L’impegno politico del sociologo si rifiuta al libro inteso come comizio politico. Fa politica senza dirlo: «La conoscenza esercita di per sé un effetto – che mi pare liberatore – tutte le volte che i meccanismi di cui stabilisce le leggi di funzionamento debbono una parte della loro efficacia al disconoscimento, cioè tutte le volte che ha a che vedere con i fondamenti della violenza simbolica» (La leà§on sur la leà§on). Il sociologo fa politica nello smontare i processi di violenza simbolica, nel palesarli (essi sono di per sé nascosti e soggetti a denegazione), fa politica decostruendo le motivazioni sociali del discorso militante e filosofico, come ha fatto Bourdieu in quel classico della demistificazione del galateo filosofico che è L’ontologia politica di Martin Heideger (1988), dove infine la filosofia non viene letta come pretende di esserlo, cioè ontologicamente, all’indicativo presente della terza persona singolare («l’esserci è»), ma contestualizzandola e senza facili cortocircuiti tra heideggerismo e nazismo (come invece aveva fatto Victor Farias nel suo libro del 1987). Il sociologo fa politica ricercando sul campo i meccanismi della «costruzione politica dello spazio» geografico e sociale, come nella straordinaria, commovente opera collettiva del 1993, in cui compaiono gli ultimi testi più densamente teorici: La Misère du monde, un volumone di 950 fitte pagine che fu venduto a 300.000 copie in Francia e tradotto in 13 lingue. Dice Marc Saint-Upéry (già  direttore delle edizioni La Dècouverte): «Citando il poeta Francis Ponge, Bourdieu dichiarò un giorno che in fondo il suo lavoro mirava ad aiutare le persone a ‘parlare con le parole proprie’, a sfuggire ai meccanismi ventriloqui del dominio e ai modi imposti dai poteri o dai falsi contro-poteri».
Insomma, cercasi disperatamente nuovo Bourdieu, una filosofia della società  e una sociologia della politica che guardino con lucidità , ma con partecipazione, questo terrorizzante mondo di oggi.

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