I versi ribelli alla linea di montaggio
In questo appassionante libro, l’opera poetica di Brugnaro è inscritta dentro un lessico quasi ostentatamente ordinario. Persino l’impiego degli artifici retorici soggiace alla medesima austerità . È questo un preciso gesto politico. Vediamo di che tipo e perché.
L’operaio del Petrolchimico di Porto Marghera, classe 1936, avanguardia di fabbrica, incarna una visione che costituisce lo spirito più profondo e forse più alto della stagione operaia dei «trenta gloriosi»: la condizione operaia non è una «categoria sociologica», accanto o sotto le altre, ma il luogo di un lessico comune, il terreno cioè dove cova e germoglia la «futura umanità » di ciascuno. Tradurre quella condizione in gesti e parole ad essa coerenti, sì con realismo sulla sottomissione e disumanizzazione, ma senza alcun complesso d’inferiorità , è la mossa ovvia di onestà e coerenza con se stessi e con il bene comune.
Il grande suo conterraneo, Zanzotto, aveva paragonato il lavoro poetico di Brugnaro in fabbrica a quello di Ungaretti in trincea. Un’indicazione fertile e acuta, se ci si riferisce alla ricerca della verità dell’uomo entro l’abiezione. Tutt’affatto diverso è invece l’operare concreto nel tessuto linguistico. Come si diceva, Brugnaro è alieno alla religione della parola, non lavora a isolare il vocabolo: la sua poesia è robustamente sintattica. Egli si muove nella medietà sperimentale degli anni sessanta, che nella personale pronuncia può semmai far pensare a certe movenze primo novecentesche, già majakovskijane. Sequenze sintattiche ampie, scandite in versi brevi, sgranati a precipizio nel bianco della pagina e martellati dalle cadenze verbali: «milioni e milioni di uomini/ costretti…/ chiusi…/ uccisi.».
Non si deve però attendersi, ma neppure le allucinazioni visive del grande russo. Anzi, nella raccolta, dedicata «ai compagni sulle torri», domina il paesaggio della deindustrializzazione, con sottotraccia la sua scia di tragedie, di sbandamenti, di tentazione alla perdita di speranza.
La figura retorica che domina la raccolta è la ripetizione, spesso coniugata con il parallelismo e resa vistosa dal ricorso a gruppi di parole: «contro questo vuoto/ che circonda ogni foglia/ che addenta ogni radice/ contro questo vento insidioso tagliente/ che nessuno vede/ e nessuno sente». La strutturazione ritmica dei componimenti è governata dalla percussività sintattica, ora assecondando l’asprezza della violenza subita, ora sostenendo l’istanza mai piegata della resistenza vitale delle buone ragioni di chi quella sopporta. Non c’è componimento che si concluda senza aver creato spazio a quel «principio speranza». Il lettore la incontra in una certa aria di fratellanza maschile tra compagni di lavoro o di lotta sindacale; nel filo d’erba che malgrado tutto fende il piazzale o il muro avvelenati della fabbrica; nell’amore pacato e intenso per la compagna.
La lirica di Brugnaro dunque – e non è un suo merito secondario – tende alla coralità . Un’istanza profonda, che talvolta giunge all’esplicitezza di Abbiamo visto, intensa come un testamento: «Abbiamo visto e vissuto come il gelo/ abbraccia l’erba di notte,/ come il mare/ addenta sempre le stesse baie./ Abbiamo visto e vissuto/ ciò che altri uomini aborriscono/ e altri ignorano. Abbiamo accettato/ scalzi la neve, le giornate tristi/ e interminabili e solo noi conoscemmo/ il nevischio assiepato sui regoli/ delle finestre, il sole trascinato via/ di forza dal vento. Noi conoscemmo la luce/ del silenzio come nessuno, sentimmo come/ nessun altro venire con la notte/ l’amore degli astri e del cuore morire».
Nel doloroso scompaginamento presente delle speranze e delle ragioni del Novecento, sconquasso tanto grave da apparire un azzeramento della storia, la voce nobile di Brugnaro non è solo una testimonianza, è una risorsa meditata per un diverso futuro.
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