Fiat, l’amaro trasloco Fiom “Lasciamo le nostre stanze”

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TORINO – «Loro hanno vinto una battaglia, noi vinceremo la guerra». Rino Mercurio lo promette mentre, insieme agli altri delegati della Fiom, carica sul furgone le cose più preziose che fino a ieri stavano nelle salette sindacali riservate ai metalmeccanici della Cgil alla Fiat Mirafiori. 
Dal primo gennaio, dopo gli accordi separati tra l’azienda e gli altri sindacati, la Fiom non ha più diritto alla rappresentanza: niente spazi interni, niente permessi, no alle affissioni in bacheca. E ieri, in uno scatto d’orgoglio, ha deciso di organizzarsi in proprio il trasloco: «Non volevamo che fossero i sorveglianti a mettere foto, bandiere, volantini negli scatoloni – spiega Giorgio Airaudo, responsabile nazionale dell’auto – Dentro quelle stanze c’è la nostra storia. Siamo convinti che rientreremo in fabbrica presto. La Fiat non può scegliersi i sindacati che preferisce, ignorando il dissenso che esiste tra i lavoratori, come dimostrano i voti e il fatto stesso che non si sia voluto sottoporre al loro giudizio gli ultimi accordi. Pensare di espellere la Fiom in questo modo è un gesto miope, oltre che scellerato». 
La strada che riporterà  la Fiom dentro Mirafiori (così come negli altri stabilimenti italiani) è ancora incerta: dopo l’esclusione, i rappresentanti sono stati rinominati in altra forma e votati, ora si attende la riapertura del 17 gennaio per sapere che cosa accadrà  nella pratica quotidiana. «Ma siamo pronti ad aprire cause legali per comportamento anti-sindacale, sulla base degli stessi criteri che i giudici di Torino hanno già  applicato nella sentenza su Pomigliano», annunciano Airaudo e il segretario torinese Federico Bellono. A Mirafiori, del resto, vota Fiom un dipendente su 3, la Cgil è il primo sindacato perfino tra i sorveglianti, che ieri controllavano l’elenco degli oggetti portati via. E guardavano uscire le bandiere rosse di epoche e sfumature diverse, le grandi foto in bianco e nero di leader che non ci sono più, come Bruno Trentin impegnato in un’assemblea strabordante sulla pista di collaudo della fabbrica torinese, o Enrico Berlinguer quando, nel 1980, alla vigilia di una delle più disastrose sconfitte del sindacato, parlò ai cancelli per portare agli operai la solidarietà  del Partito comunista. 
Escono fotocopiatrici e computer («questi ci servono per continuare a fare sindacato, saremo comunque presenti ai cancelli con i nostri camper»), striscioni e fotografie personali di delegati che non ci sono più, «perché questa organizzazione è anche una comunità ». Su dieci delegati delle Carrozzerie, ieri ne sono arrivati sette per imballare e portare via, e si capisce che non sarà  facile cancellare dalla fabbrica una sigla che contiene dentro di sé militanza, sentimenti, idee e perfino una notevole dialettica interna. La stessa dialettica che, ieri, ha fatto scegliere alle delegate presenti di non parlare con i giornalisti: «E’ una giornata difficile», hanno spiegato. E sono uscite per ultime. Perché? «Volevamo lasciare pulito e in ordine. Torneremo presto, ma intanto abbiamo spazzato in terra, perché le cose si devono fare per bene».


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