E le Aziende Pagano il Conto

by Editore | 17 Gennaio 2012 8:39

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Dopo aver declassato i titoli del debito della Repubblica italiana, Standard & Poor’s farà  altrettanto con le obbligazioni delle maggiori imprese italiane finanziarie e non, pubbliche e private? È la domanda che si fanno in queste ore banchieri, assicuratori e industriali che negli anni scorsi hanno collocato sui mercati finanziari obbligazioni per centinaia di milioni di euro, 88 dei quali per le sole banche scadono nel 2012. S&P analizza cento emittenti, di cui 21 del settore pubblico, 38 banche, 11 assicurazioni, 10 pubblici servizi e infrastrutture, 20 industrie. Di tutte queste emittenti, 21, quasi tutte nel settore industriale, non hanno l’investment grade, ovvero la sufficienza minima, e 40 vengono a trovarsi, al momento, in una posizione migliore di quella del Tesoro. Che per molti sarà  arduo conservare.
Il debito del Tesoro italiano, senza distinzione di durata, è stato declassato da A a BBB+. Nella scala del rating, che ha al vertice d’eccellenza la tripla A, l’Italia è stata fatta scendere di colpo dal sesto all’ottavo gradino. Altri due gradini e si troverebbe al livello BB+, da dove iniziano i titoli spazzatura che gli anglosassoni chiamano junk bond. Ieri le tensioni sui tassi d’interesse non sono state enormi, perché l’analisi di S&P arriva dopo che i mercati avevano già  espresso i loro articolati giudizi sull’Italia, con i tassi in deciso ribasso sul breve termine, sempre consistenti sulle scadenze più lunghe. Ma nei prossimi giorni potrebbero venire sorprese, che rimetterebbero ancor più in discussione la funzione del rating e la sua influenza sulla determinazione del costo del capitale, da cui largamente dipende la convenienza degli investimenti. Se il rating delle società  migliori, che stanno un notch, ovvero un gradino sotto quello del Tesoro, subisse lo stesso declassamento, le ritroveremmo a un passo dal baratro dei junk bond dal quale, per esempio, non riesce a togliersi la Fiat. Per le altre, con debiti più pesanti, sarebbe peggio. Nel caso di un riallineamento generale, le conseguenze sarebbero due: a) aumenterebbe per tutti il costo del capitale, b) per quanti hanno come condizione dei finanziamenti già  presi il mantenimento dell’investment grade, si profilerebbe il venir meno di una garanzia contrattuale, con la necessità  di rinegoziare il debito.
Sulla base dell’esperienza, l’opinione più diffusa è che possano subire un declassamento le società  che oggi hanno il rating più alto, la singola A, come Atlantia, Eni, Enel e Terna, o la doppia A come alcune compagnie assicurative a partire da Generali, mentre sarebbe più facile la tenuta di quelle con il rating inferiore, come Telecom Italia e Finmeccanica, che viaggiano sulla tripla B. Se così fosse, le grandi imprese potrebbero dover scontare soltanto maggiori oneri al rinnovo delle obbligazioni in scadenza. Ma tali sono state le sbandate delle agenzie che, sulla carta, tutto è possibile.
È consuetudine delle agenzie, infatti, non attribuire ai soggetti di diritto privato un rating pari o superiore a quello dello Stato di appartenenza. Si tratta di un criterio deciso da questi enti senza alcun coinvolgimento né dei governi né delle autorità  monetarie e nemmeno degli emittenti privati, che ne richiedono e ne pagano il servizio a differenza di molti Stati che, come l’Italia, non chiedono nulla. Ma è un criterio accettabile a scatola chiusa? La risposta è: no, non è sempre accettabile. È comprensibile che i gruppi multinazionali, per esempio le Generali, non dipendano tanto dalla valutazione del merito di credito della madrepatria quando dalla somma ponderata dei diversi rischi specifici, Paese per Paese. Ma anche per società  a forte radice nazionale la storia dei tassi d’interesse smentisce l’esistenza di una correlazione obbligata tra rischio sovrano e rischio privato. Negli anni dei tassi alle stelle, i certificati di deposito di Mediobanca pagavano un interesse non di rado inferiore a quello dei titoli di Stato. Oggi i credit default swaps, come si chiamano i contratti di assicurazione contro il rischio d’insolvenza di un emittente, costano per i Btp più o meno quello che costano per le obbligazioni Intesa Sanpaolo. Di più, la recessione incide in modo diverso sulle imprese. L’automobile non è uguale alle telecomunicazioni, l’elettricità  non è la stessa cosa della grande distribuzione, credito e autostrade presentano rischi differenti. E lo Stato non sempre pesa allo stesso modo. 
Per esempio, Terna e National Grid fanno lo stesso mestiere: gestiscono reti elettriche a tariffa. L’italiana ha conti migliori, ma il rating di S&P è analogo. E domani potrebbe diventare peggiore a causa del declassamento della Repubblica. Ha senso? Ogni soggetto privato merita attenzione specifica. Tanto più quando esistono società , come Campari e Luxottica, che sono perfettamente in grado di piazzare le loro obbligazioni senza avalli d’agenzia ma solo grazie alla propria reputazione. La necessità  del rating, d’altra parte, è assai più legata alle esigenze dell’industria finanziaria di gonfiare le proprie bolle speculative, con la finanza derivata e strutturata, che non alle emissioni dirette delle imprese. Le quali in Europa, con la garanzia primaria delle singole banche, si sono sempre fatte e in modo assai più trasparente di quando, con gli anni Novanta, l’industria del giudizio esterno ha liberato le banche dal dovere di mettere in gioco la propria reputazione nel collocare presso il pubblico il debito dei propri grandi clienti.

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