by Sergio Segio | 11 Gennaio 2012 16:08
Considerando il punto di vista di uno stato, la cittadinanza multipla è nella migliore delle ipotesi un’eccezione all’ordine e nel peggiore una minaccia. Per le autorità il cittadino ideale è quello che nasce, vive, lavora, paga le tasse, va in pensione e muore in un’unico luogo, viaggia con un solo passaporto e tramanda un’unica nazionalità ai suoi figli. In tempi di guerra lo stato può chiedere al cittadino di dimostrare la propria lealtà alla patria, a volte a costo della vita. La cittadinanza è il collante che unisce l’individuo e lo stato. Senza di essa, la relazione tra cittadino e autorità svanisce.
Ma la vita è più complicata di così. La lealtà a un’entità politica non deve per forza essere esclusiva. A volte si verificano strani “accavallamenti”. Molti ebrei conservano il passaporto israeliano in segno di solidarietà con lo stato ebraico (e come polizza assicurativa), pur mantenendo la cittadinanza del loro paese di nascita. I [discendenti dei] Teutoni possono vantarsi di essere contemporaneamente bavaresi, tedeschi ed Europei. I cittadini irlandesi possono votare per il parlamento britannico. La vecchia nozione di “un uomo, una nazionalità ” appare ormai anacronistica: più di 200 milioni di persone vivono e lavorano lontano dal paese di nascita, ma nonostante ciò desiderano ancora tornare a casa, per sposarsi o per fare affari.
Il protezionismo politico è la risposta più sbagliata a questo fenomeno. Ancora oggi alcuni stati costringono i cittadini a scegliere un’unica nazionalità o ostacolano il loro diritto ad avere più di un passaporto. Sembra strano, considerando che la cittadinanza è spesso molto semplice da acquisire. In alcuni stati è addirittura in vendita, mentre in altri (per esempio negli Stati Uniti) può derivare da una nascita “casuale” e intempestiva.
Piuttosto che considerare i passaporti come feticci, i governi farebbero meglio a usare la residenza (e il pagamento delle tasse) come criterio principale per determinare i diritti e le responsabilità di un cittadino, incoraggiando in questo modo la coesione e l’impegno civico. La scelta di vivere in un paese e sottomettersi alle sue regole, d’altronde, è sempre cosciente. Lentamente il mondo si sta muovendo in questa direzione, ma molti stati (soprattutto quelli poveri e guidati da governi inefficaci) continuano a opporsi, mentre altri paesi come Paesi Bassi e Germania cercano di rallentare il processo adducendo una serie di scuse.
La preoccupazione dei governi sulla sicurezza dello stato sembra anacronistica nell’era moderna. Ai tempi in cui la difesa militare si basava sulla coscrizione la cittadinanza era un elemento cruciale, ma oggi gli eserciti non hanno più bisogno di reclute mal addestrate e costrette a prestare servizio. La cittadinanza, inoltre, non è una garanzia di lealtà : i più famosi traditori della storia erano nati e cresciuti nel paese a cui hanno poi voltato le spalle, mentre molti di coloro che sono pronti a combattere fino alla morte per una bandiera non sono cittadini del paese per cui combattono.
Oggi i governi associano i non-cittadini a tutta una serie di problematiche politiche e finanziarie: sfuggono alla tassazione, approfittano dei servizi e mantengono le abitudini retrograde delle loro comunità d’origine. A volte è così, ma è altrettanto vero che i paesi che vogliono combattere l’evasione fiscale, proteggere l’identità linguistica nazionale o scoraggiare costumi arretrati come i matrimoni combinati dovrebbero farlo attraverso leggi specifiche, piuttosto che affidandosi al potere simbolico della cittadinanza.
La politica fiscale di Washington nei confronti dei cittadini americani, ai quali è richiesto di pagare le tasse qualunque sia il loro paese di residenza, sembra particolarmente perversa. Per quanto riguarda i servizi sociali la chiave è senz’altro la residenza. Vivi e paga le tasse in un paese e sarai trattato come gli altri, e meglio dei cittadini che vivono all’estero e non pagano le tasse.
Il problema più spinoso di un sistema basato sulla residenza riguarda però il diritto di voto, da sempre legato alla cittadinanza. Tuttavia anche in questo caso c’è spazio per un compromesso. In Francia e Italia, per esempio, i cittadini che vivono stabilmente all’estero (spesso con doppia nazionalità ) mantengono il loro diritto di voto. La cosa ha un suo senso. Ma sarebbe altrettanto sensato che i governi concedessero il diritto di voto agli stranieri che vivono nel paese da molto tempo, almeno per quanto riguarda le elezioni locali. I paesi dell’Unione europea hanno già adottato un approccio di questo tipo per i cittadini degli stati membri.
Considerare la cittadinanza multipla soltanto sulla base dei costi e dei problemi è però sbagliato. Bisogna infatti tenere conto che un approccio più libero favorirebbe i legami tra gli espatriati (spesso ricchi e ben integrati) e i loro paesi d’origine (il più delle volte poveri), garantendo benefici a entrambe le parti. La cittadinanza multipla è qualcosa di inevitabile e profondamente liberale. Bisogna celebrarla.
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