Diseredato dal padre creò un impero Il prete con il mito della longevità 

by Sergio Segio | 2 Gennaio 2012 9:28

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Se don Luigi Verzé (Illasi, 14 marzo 1920-Milano, 31 dicembre 2011) se ne fosse andato un anno fa, sarebbe stato ricordato come l’uomo che creò dal nulla il più grande ospedale e il più grande centro di ricerca d’Italia, a prezzo di azzardi finanziari e disinvolture amministrative, di cui la magistratura si era occupata già  ai tempi di Tangentopoli. Quest’ultimo, orribile anno è stato segnato dal suicidio del braccio destro Mario Cal, dalla rivelazione di pratiche tangentizie non estranee al crac finanziario, da intercettazioni — «stanotte ci sarà  del fuoco» — in cui emergono linguaggi malavitosi e metodi criminali per liberarsi di vicini molesti e di chiunque rappresentasse un ostacolo. In realtà , don Verzé non era ovviamente un criminale. Era un megalomane. La stessa megalomania che lo portò a fondare il San Raffaele lo induceva a comprarsi il jet privato per evitare le code al check-in. Lo spingeva a portare per primo in Europa la macchina per la tomoterapia — «quanto costa? Dieci milioni di euro? La voglio!» — e ad allestirsi zoo e scuderie dove scelse per sé un purosangue di nome Imperator. A chiamare per dirigere la sua università  i migliori intellettuali italiani e a comprare fazendas in Sudamerica dove veniva fotografato a bordo piscina. Era anche un autocrate, ed era affascinato dagli uomini che considerava suoi simili, fossero di destra o di sinistra, musulmani o atei, Gheddafi o Fidel Castro, che chiamava familiarmente «El Crapòn». Amico di Craxi, si portò a Tunisi quando il leader socialista venne operato all’ospedale militare da un’équipe del San Raffaele: don Verzé sbarcò dal suo jet, annunciò che aveva con sé un messaggio di Wojtyla per l’infermo, brigò per riportarlo in Italia o almeno a Parigi, si lamentò di Ciampi, litigò con il premier francese Jospin. Per Berlusconi aveva una fascinazione. Raccontava di averlo visto per la prima volta nel 1964, in clinica, e di avergli detto: «Lei guarirà , e farà  grandi cose». (Don Verzé si considerava anche veggente: «È un dono che ho sempre avuto. Ma lo dissimulo, e non ne parlo, perché non voglio passare per un profeta»). A lungo i due hanno litigato: anche Berlusconi infatti era un suo vicino. «Stava costruendo Milano 2 — ha raccontato don Verzé —. Venne a propormi un’alleanza. Entrambi avevamo acquistato i terreni dal conte Bonzi. Ma quando andai dal nobiluomo per comprare un altro lotto che mi aveva promesso, mi rispose di no: Berlusconi mi aveva preceduto con l’assegno in mano; il conte era molto simpatico ma molto bisognoso di denaro, e non aveva resistito. Ne parlai con Silvio, che tracciò un fosso e propose un accordo: tu costruirai da qui verso Nord, io da qui verso Sud. Ma verso Nord era tutto terreno agricolo, non edificabile!». Insomma Berlusconi aveva fregato anche lui; il che non gli impedì di definirlo «un dono di Dio all’Italia». Anche perché con il Cavaliere collaborò per far deviare le rotte degli aerei che atterravano e decollavano da Linate, perché non disturbassero malati e inquilini. Luigi Verzé è sempre stato molto amato e molto odiato. Fin da piccolo. Il padre possidente veneto lo adorava ma lo diseredò quando seppe che sarebbe diventato sacerdote. La madre lo baciò una sola volta in vita sua, il giorno della prima comunione. Fu segretario di don Calabria, un santo. Fin da giovane ebbe la fissa dell’ospedale. Da arcivescovo di Milano, Montini cercò di fermarlo. Don Verzé confessò di aver pregato perché non divenisse Papa («però lo stimavo moltissimo: ho scritto nei miei diari ogni frase che mi ha detto, come ho sempre fatto con i grandi che ho incontrato, per settant’anni»). A Borrelli inviò una lettera malaugurante che il magistrato gli rispedì indietro. Ma lo scontro più duro fu con Rosy Bindi, che da ministro della Sanità  gli vietò lo sbarco a Roma. Lui così rievocava l’episodio, rivolgendosi come don Camillo direttamente al Padreterno: «Dio mio, tu mi hai tentato come hai fatto con Abramo, chiedendogli di sacrificare il suo figlio prediletto. Ma tu a me non hai mandato l’angelo a fermarmi il braccio, a me hai mandato Rosy Bindi, che è stata solo il magatello di ben altri poteri, di Roma ladrona; perché tale Roma è, anche se solo Bossi ha il coraggio di dirlo!». E qui don Verzé levava il dito con un sorriso enigmatico, evocando il don Bosco che annunciava imminenti funerali alla reggia per indurre Vittorio Emanuele II a non firmare le leggi di confisca dei beni ecclesiastici. Neppure il Vaticano lo amava, in particolare per le sue posizioni sulla ricerca scientifica. Alla vigilia del referendum del 2005, in un’intervista al Corriere don Verzé si schierò in difesa della fecondazione assistita e del ricorso agli embrioni umani per trovare nuove cure («a patto di non ucciderli e non ferirli»). Mentre il cardinale Ruini faceva campagna per l’astensione, lui sosteneva che «tutti hanno il diritto di avere figli. Qualcuno può rinunziarvi, come ho fatto io; nessuno può impedirlo a un altro. Non sopporto gli irsuti inquisitori che pretendono di alzare il lenzuolo del letto nuziale; mi pare impudico. A suo tempo, la Chiesa accetterà  la fecondazione omologa in vitro, come accetterà , almeno per situazioni limite, la pillola contraccettiva e il preservativo. Per farlo capire a certi proibizionisti basterebbe che uscissero dalle affrescate stanze curiali e si intrattenessero per un po’ nelle favelas e nei tuguri africani!». Don Verzé aveva fondato anche una personale teologia. «Decenni di frequentazioni della morte mi hanno convinto che l’uomo non può stare senza nessuna delle tre parti che lo compongono, corpo, psiche e spirito. Per cui, al momento della morte, Dio ricrea il nostro corpo immediatamente, senza attendere la fine dei tempi». E dove sono i nuovi corpi dei morti? «Questo non lo so. Però so per certo che Dio non ha creato la morte». Ossessionato dalla longevità , annunciava che presto saremmo vissuti tutti almeno fino a 120 anni, subito ripreso e rilanciato da Berlusconi, per il timore di oppositori ed eredi politici. Al che don Verzé chiosava che l’immortalità  va intesa in senso lato: «Ricerca, medicina, filosofia ci porteranno a vincere la morte, a trasformarla da trauma a fatto evolutivo. Sento che il Signore verrà  a prendermi, e io lo vedrò, già  sollevato da terra, sospeso tra la vita futura e la vita terrena…». Nel San Raffaele, «tempio della sofferenza» come da iscrizione all’ingresso, aveva fatto effigiare simboli e personaggi evocativi: Tobia, Giobbe — «Pelle per pelle» è il titolo dell’autobiografia scritta con Giorgio Gandola —, il Cristo, le donne della Bibbia, Esculapio. «Jesus Deus patiens», Gesù è Dio che soffre, dice nel cortile l’iscrizione a forma di croce sormontata dal serpente redento, simbolo della medicina. Quando negli anni Settanta vennero i katanga per sfasciare tutto, lui li ammansì sostenendo che preti e rivoluzionari facevano lo stesso mestiere. Ruppe con Cl. Divenne amico di Cacciari, con cui parlava a lungo di angeli. Fu amico, e rivale, anche di Umberto Veronesi. Portò Di Pietro a pranzo a Milano in Galleria per convincerlo a fare il ministro del governo Dini. Sostenne che i malati avevano diritto alla bellezza e al lusso e ordinò per i reparti lenzuola di lino e posate d’argento: le rubarono tutte. Fece debiti colossali e a chi gliene chiedeva conto rispondeva: «Non sono miei, sono delle banche». Per lo zoo interno si ispirò a Disneyland e comprò canguri, scimmie, uccelli esotici. Il San Raffaele oggi è in India, Brasile, Tibet, Polonia, Algeria, Malta, Cuba, Medio Oriente. La megalomania, causa della sua grandezza e della sua rovina, non lo abbandonò mai. Scrisse un libro con il cardinale Martini e numerose lettere a George Bush per supplicarlo di non attaccare Saddam. Si faceva chiamare «presidente» e definiva Dio «il top manager». Sosteneva di aver preparato con Castro la sua visita al Papa e poi il viaggio di Wojtyla a Cuba. Negli ultimi giorni si è paragonato a Cristo in croce. Ora sarà  rimpianto ed esecrato. Restano un disastro finanziario, vite stroncate come quella di Cal, una verità  giudiziaria da appurare nei processi. Resta anche il fatto che là  dove c’erano campi incolti don Luigi Verzé ha costruito il più grande ospedale e centro di ricerca d’Italia. Aldo Cazzullo

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