Debbie Bosanek for President

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Ma il più persuasivo argomento elettorale non ci è venuto dalla pur brillante oratoria del presidente, bensì da una spettatrice silenziosa: Debbie Bosanek. La sua sola presenza parlava più di tutta la sapiente retorica obamiana, non solo perché era seduta accanto alla first lady Michelle Obama nel suo palco, sopra le poltrone dei parlamentari, ma perché Bosanek è la segretaria di Warren Buffett, il più grande investitore e speculatore finanziario statunitense.
È stato Buffett a rendere famosa la sua segretaria quando in estate ha dichiarato scandaloso che lui paghi un’imposta del solo 17,4% sui 40 milioni di dollari del suo reddito annuo, mentre la sua segretaria Bosanek, che guadagna meno di 50.000 dollari, ne versa il 36% al fisco. Da quel giorno Debbie è diventata il simbolo vivente dell’ingiustizia fiscale negli Stati uniti. Non per nulla, la mattina stessa di martedì, il principale candidato alla nomination repubblicana per la presidenza, l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, era stato costretto a dichiarare che sui 20 milioni di reddito suo e della sua famiglia, lui ha versato solo il 13,9%.
Ma se Debbie è diventata la principale testimonial per la campagna di Obama, ciò è dovuto alla svolta impressa dal presidente al suo messaggio, una sterzata che, dopo il discorso sullo stato dell’Unione, l’organo della destra Usa Politico ha definito con maligna precisione titolando «Obama, il populista riluttante»: Obama ha dovuto per la prima volta ammettere – per motivi certo elettorali, e come effetto di rimbalzo del movimento Occupy Wall Street – che oggi la lotta politica negli Usa si configura come uno scontro di classe. Lo ha proprio detto nel suo discorso, quando ha implicitamente citato Bosanek: «Ora, voi potete chiamarla guerra di classe quanto volete. Ma chiedere a un miliardario di pagare le tasse almeno quanto la sua segretaria? La maggior parte degli americani lo chiamerebbe puro buon senso».
Ironia della storia: è straordinario come la lotta di classe, scomparsa dal discorso pubblico in Europa, abbia una tale rilevanza negli Stati uniti dove per decenni si è sostenuto che non ci fossero più classi, ma solo una underclass.
Ma per misurare l’entità  della virata obamiana, bisogna ricordare che tutta la sua campagna presidenziale del 2008 era basata sull’immagine di un pragmatista post-partitico. Obama era l’uomo che diceva d’ispirarsi sia a John F. Kennedy che a Ronald Reagan. Era l’uomo alla ricerca di accordi bipartisan a tutti i costi. E tale è rimasto per il 2009, il 2010 e poi, malgrado le sberle incassate dal Tea party, per quasi tutto il 2011.
La svolta è stata formulata da Obama in un discorso in Kansas a dicembre e ha coinciso con le dimissioni di William Daley da capo dello staff della Casa bianca. La svolta è populista nell’accezione che gli statunitensi usano per designare la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909), perché in Kansas Obama ha annunciato che l’obiettivo principale della sua politica nel secondo mandato sarà  la «difesa della classe media» (dove per middle class negli Stati uniti s’intende quel ceto che comprende gli operai e i salariati dei servizi e del settore pubblico, ma non la classe media come l’intendiamo noi).
Già  nel 2008 Obama aveva cavalcato il «rischio di estinzione della classe media». La differenza rispetto ad allora è che adesso egli indica i responsabili, e cioè i grandi capitalisti. Lo fa un po’ per tentare di riconquistare la sua irritata base progressista che si sente tradita. Un po’ perché i due principali candidati repubblicani – Romney e Newt Gingrich – sono due miliardari, uno con conti alle isole Cayman e in Svizzera, e l’altro faccendiere e lobbista per la grande finanza. E poi perché tutto il dibattito politico è stato radicalizzato dal Tea Party da un lato e da Occupy dall’altro.
Ora però il problema per Obama è intanto se la sua base gli crederà , dopo che tante sue promesse si sono rivelate da marinaio; e poi, come ha scritto il quotidiano britannico The Guardian, è «se riuscirà  a persuadere la gente, nonostante la loro propria esperienza, non solo che sarebbe andata peggio senza di lui, ma che potrà  solo andare meglio con lui».


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