Damasco, assedio al bastione di Assad “Contro di noi il grande gioco degli Usa”

by Editore | 31 Gennaio 2012 8:27

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DAMASCO – «Ma chi sono questi soldati del Libero esercito siriano?», si chiede Khadri Jamil, il segretario del vecchio partito comunista siriano, un tempo in rotta con il regime degli Assad, messo fuorilegge, ma oggi fautore di opposizione dialogante e di una transizione morbida alla democrazia. «Sono come i Contras – risponde sdegnato – . Denaro e sostegni dall’esterno. Pronti a innescare una guerra civile che è un progetto degli Stati Uniti, dopo che due mesi fa ci avevano dato garanzie che non avrebbero subito interferenze straniere».
E così, dopo aver liquidato i militari che hanno voltato le spalle all’esercito siriano per unirsi alla protesta contro Bashar Al Assad, paragonandoli ai controrivoluzionari che combatterono contro il governo sandinista del Nicaragua al soldo degli Stati Uniti, Jamil si dice pronto a giurare che «non andranno da nessuna parte perché non hanno l’appoggio né della gente, né dei Comitati di resistenza popolare”. Le ultime notizie dal fronte interno, però, lo smentiscono.
Mai i disertori del Libero esercito avevano osato tanto come nella scorsa settimana. Partiti dalle province al confine con la Turchia, dove è basato il loro quartier generale, guidato dal colonnello Riad Al Asaad, sfruttando la loro mobilità  e l’evidente simpatia di alcuni settori del popolo degli insorti, i soldati ribelli si sono rapidamente avvicinati a Damasco, il santuario e al tempo stesso il principale bastione a difesa del regime, da quando, oltre dieci mesi fa è esplosa la protesta.
Prima Duma, 20 chilometri dalla capitale, poi Amourieh, 8 chilometri da Damasco. Quindi Saqba. Alla fine, per riprender in mano la situazione l’esercito siriano è dovuto ricorrere ai carri armati, in violazione del piano di pace della Lega araba.
Intendiamoci, la capitale non sembra risentire di questo avanzamento del fronte dei combattimenti. Come ogni venerdì, anche alla vigilia di questo fine settimana i fedelissimi del Presidente si sono dati convegno nella centralissima piazza Saba Bakrat, per gridare slogan e cantare canzoni a sostegno del regime. Ma non tanti come all’inizio della protesta. «Perché – mi dice Fahad, traduttore e amico – la gente comincia ad avere paura degli attentati e delle sparatorie». Borghesia, burocrati, rampolli di famiglie benestanti con le loro jeep nere dalle cromature scintillanti e con la bandiera nazionale. Ma Damasco ha perso anche il suo spirito. I ristoranti sono aperti, ma vuoti. Il traffico è intenso soltanto nelle ore diurne, all’imbrunire le strade si svuotano. I commercianti lamentano un’impressionante caduta degli affari. 
E in questo clima che evoca pericoli sempre più immediati e stringenti (secondo le organizzazioni umanitarie le vittime della tenaglia protesta-repressione hanno superato quota seimila, un dato che il governo siriano contesta, preferendo sottolineare la perdita di oltre duemila tra soldati e agenti degli apparati di sicurezza) il sangue reale che scorre per le strade della Siria si confonde con le battaglie virtuali della guerra mediatica.
Alla categoria delle false notizie date di proposito in pasto alla folla degli internauti, e dunque destinata a moltiplicare geometricamente i suoi effetti, a prescindere dalla realtà , appartiene la storia delle presunta fuga della moglie di Assad, Asma, con i loro figli e, in seconda battuta, dello stesso presidente, fuga interrotta proprio dagli uomini del Libero esercito, sulla strada dalla capitale all’aeroporto di Damasco. “Una bufala”, come l’ha definita lo stesso twitter che l’aveva propagata. Una “bufala” evidente sin dall’inizio perché se le forze lealiste avessero perso il controllo dell’aeroporto, per il regime sarebbe già  suonata la campana a morto. Ma non è così.
Non le voci incontrollate che circolano sui social forum, ma l’inarrestabile deterioramento della situazione (nelle ultime 48 ore i morti sarebbero stati più di 60 in tutto il Paese) sembra aver riscosso dal lungo sonno la diplomazia internazionale. Fermamente decisa a rispettare il suo patto d’onore con gli Assad, ma sentendosi al tempo stesso scomoda nella posizione di protettore ad oltranza del regime siriano contro le decisioni che possono sortire dal Consiglio di sicurezza dell’Onu che si riunisce oggi, la Russia ha deciso di giocare la carta del dialogo contro l’ipotesi di un intervento esterno di tipo militare.
Ma se Damasco ha risposto prontamente e positivamente all’invito dei governanti russi, il Consiglio nazionale siriano, una delle maggiori organizzazioni della rivolta, quella che raccoglie soprattutto i dissidenti all’estero, ha respinto al mittente la richiesta di intavolare trattative. E senza il Consiglio nazionale siriano non c’è negoziato che tenga. La prospettiva, quindi, è che davanti all’attivismo della Francia decisa ad ottenere la condanna della Siria per “gravi delitti contro l’umanità “, la Russia non potrà  che far valere il suo potere di veto.
«Le grandi potenze occidentali stanno sbagliando tutto», commenta Khadi Jamil, sicuro di sé. «Non ci potrà  essere nessun cambiamento di regime se non ci sarà  prima una pacificazione fra il popolo siriano. A meno che gli Stati Uniti, la Francia e Israele non vogliano fare della Siria un’altra Libia».

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