Dalle élite in crisi al populismo così la politica ha perso autorevolezza

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Nel suo messaggio di Capodanno il Capo dello Stato ha detto, tra l’altro, che l’Europa ha bisogno di leader più autorevoli. E, certo, è difficile negare che vi sia una sproporzione singolare fra De Gaulle (ma anche Chirac) e Sarkozy, fra Adenauer (ma anche Kohl) e la Merkel, fra De Gasperi (ma anche Moro) e Berlusconi. La nostra è forse un’epoca di nani? 
Di fatto, oggi, il termine leader è utilizzato prevalentemente per indicare “importante”, “primo”: ad esempio, in locuzioni come “azienda leader”, “leader del campionato”. Nell’ambito politico funge da sinonimo per “governante”: i “leader europei” significa i capi di Stato e di governo. Una presa d’atto che c’è qualcuno in posizione di comando, insomma; senza ulteriori specificazioni. Se si vogliono trovare utilizzazioni del termine più connotate in senso qualitativo e personale, viene spontaneo andare con il pensiero a esperienze politiche esotiche, quali il comunismo dinastico nord-coreano, al “Grande Leader” (Kim il-Sung) che lo ha fondato, al suo figliolo e successore, testé defunto, Kim Jong-il, il “Caro Leader”, e al (per noi) grottesco culto della personalità  che è loro tributato. Insomma, se con leader si intende una rilevante figura d’uomo (o di donna) che esercita il potere politico in modo energico, proponendo ai suoi concittadini una “visione” specifica, un orizzonte di senso condiviso, allora viene davvero da pensare che la leadership non sia più all’ordine del giorno, nelle esperienze politiche occidentali. Che abbia in sé qualcosa di obsoleto, che implichi una pretesa eccessiva, una richiesta smodata, sproporzionata rispetto a uno spazio, la politica, che non è più adatto a reggere, a sopportare, il peso di un vero leader. Il quale, infatti, è lo snodo fra l’Io (il singolo) e il Noi (il popolo, il partito); sa leggere i processi in atto, e catalizza le energie sociali verso una direzione; è un visionario pratico, che miscela efficacemente l’interpretazione personale e il movimento collettivo. Oppure, se si tratta di una leadership collettiva – di una élite –, sa proporre credibilmente il proprio interesse parziale come orizzonte entro cui si possono sviluppare le risorse materiali e morali di una collettività . 
Se è vero che la modernità  ha privilegiato la centralità  dei cittadini e l’impersonalità  universale del potere, oppure le grandi forze oggettive e necessarie della storia, è anche vero, tuttavia, che quanto più la politica era presa sul serio – ovvero quanto più appariva, ed era, la dimensione decisiva in cui si giocavano le sorti del vivere civile – tanto più essa, con discreta frequenza, era interpretata da autentici leader, o da efficienti élites. Da veri uomini politici o da vere classi politiche, insomma. Gli esempi, anche solo nel XX secolo, sono a tutti noti ed evidenti, nel bene e nel male. Oggi le cose sono diverse, per molti motivi. Perché la politica è consegnata ad anonimi grigi funzionari, che hanno più del tecnico che del politico; perché le forme tradizionali della politica, le istituzioni, sono stanche e svuotate, mentre la sostanza della politica, il potere, si abbatte direttamente sulla vita – sul corpo e sulle menti – delle persone; perché le forze che attraversano la società  sono talmente ipertrofiche da non apparire più governabili, e le crisi, fattesi planetarie, sembrano fenomeni non politici ma naturali, e come questi intrattabili; perché le élites hanno ovunque perduto il rispetto di se stesse e del popolo; perché insomma la quotidianità  straripante, cangiante e sfuggente, non può essere afferrata e messa in forma dalla politica. Che è screditata in quanto largamente corrotta e collusa; in quanto è subalterna alle esigenze e ai ritmi dell’economia (a sua volta largamente fuori controllo); in quanto è con ogni evidenza parte del problema, e non della soluzione. 
I leader, oggi, sono richiesti, certo (le élites meno; ed è un errore). Esiste, fortissima, l’esigenza di dare un volto alla politica, di rendere riconoscibili gli ingranaggi del potere, di dare un senso alle miriadi di vicende, di aspirazioni e di sofferenze, di cui è fatta la società . Ma quelli che abbiamo a disposizione o sono leader non politici, outsider provenienti dalle più disparate esperienze (Youssou N’Dour che si candida in Senegal ne è solo l’ultimo esempio), oppure sono leader o leaderini populisti, venditori di speranze a buon mercato, imbonitori da strada o da osteria, o da pulpito, che catalizzano non speranze né progetti ma paure, rabbie, fobie. Ne abbiamo avuti, e ancora ne abbiamo, anche nel nostro Paese. La personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, fenomeni di facciata, prendono il posto della leadership, che è una questione di sostanza. E anche quei politici professionisti (ad esempio, Obama) che, pagando un prezzo inevitabile alla politica-spettacolo, vincono durissime campagne elettorali sulla base di programmi meditati, e si misurano con le questioni reali della politica, vengono ben presto triturati dai media, dagli avversari, dal fuoco amico, e dall’incalzante susseguirsi di sempre nuove emergenze che è la esperienza quotidiana di chiunque, oggi, eserciti un po’ di potere. E in breve divengono, da leader che erano, anatre zoppe; mentre la loro “visione” scade in un’affannata gestione del presente. 
Certamente quindi, permane l’esigenza che la politica trovi nuove vie d’approccio, nuove risposte condivise, nuovi orizzonti di senso. Che grandi mobilitazioni di massa incrocino personalità  decise o élites finalmente consapevoli che abbiano la forza e la speranza (o la disperazione) di mettere le mani negli ingranaggi della storia, e collaborino al traghettamento delle nostre società  fuori dalla palude in cui sprofondano. Non è detto che questa esigenza di leadership – che è in realtà  esigenza di politica in grande stile – possa essere soddisfatta; e che la politica trovi l’energia e l’immaginazione per emanciparsi dalla decadente mediocrità  del presente. Eppure, anche solo che il problema sia almeno posto è già  un passo nella direzione giusta.


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