DA TEHERAN A DAMASCO UN ANNO PIENO DI PERICOLI

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All’epoca ci vollero sei mesi di repressione violenta per far tacere le manifestazioni di protesta. La “rivoluzione verde” è stata schiacciata, ma ora sono i conservatori che si dilaniano fra loro, incapaci di ritrovare una base di consenso tra la popolazione. Questa teocrazia politicamente appesa a un filo si indebolisce sempre di più via via che le sanzioni economiche internazionali, conseguenza delle sue ambizioni nucleari, diventano più stringenti e la strangolano.
Il potere iraniano è con le spalle al muro e, dopo aver fatto devastare l’ambasciata britannica, oggi minaccia di bloccare lo stretto di Hormuz, da cui passa oltre un terzo del commercio petrolifero internazionale. Con una fuga in avanti ben poco razionale, questo regime arriva a sfidare il mondo intero, Cina e Russia comprese. Teheran sembra aver perso la testa: potrebbe essere una buona notizia, il segnale che gli ayatollah sono agli sgoccioli, ma non lo è perché il rischio è che possano tentare, presi dal panico, di assicurarsi la sopravvivenza scatenando un incendio regionale (hanno i mezzi per farlo) nel Golfo Persico, in Iraq o, con l’aiuto di Hezbollah, alla frontiera settentrionale di Israele.
Il fronte iraniano in questo inizio anno rappresenta il dossier più preoccupante, ma anche la crisi siriana non è da meno. Dieci mesi di spietata repressione non hanno avuto ragione di un’insurrezione popolare che anzi continua ad accrescere le proprie fila. Più a lungo si protrarrà  questa prova di forza, più ci sarà  il rischio che si trasformi in una guerra civile, e a stretto giro di posta in uno scontro regionale fra sciiti e sunniti, perché in pratica la crisi siriana è un confronto fra una maggioranza sunnita e una minoranza sciita che detiene il potere.
Si sta delineando una linea di frattura: da una parte il potere siriano, l’Iran sciita e l’Iraq, dove la maggioranza sciita ha preso le redini del potere dopo la caduta di Saddam Hussein, e dall’altra parte i sunniti siriani e iracheni e le monarchie sunnite del Golfo, guidate dall’Arabia Saudita, a cui gli americani hanno appena venduto altri 84 cacciabombardieri.
La crisi iraniana e quella siriana sono sempre più strettamente legate e fra non molto potrebbero diventare una soltanto, con il Medio Oriente in fiamme, proprio nel momento in cui tutte le grandi potenze si trovano ad affrontare il 2012 in posizione di debolezza.
Di fronte a un disavanzo di bilancio senza precedenti, gli Stati Uniti tagliano la spesa militare. Non solo oggi non avrebbero gli strumenti finanziari per realizzare un intervento armato, ma dovrebbero anche fare i conti con un’opinione pubblica radicalmente ostile, ora che si è aperta, con le primarie in Iowa, la campagna presidenziale, e in una fase in cui Washington è impegnata a ritirare le truppe dall’Afghanistan dopo aver portato a termine, il mese scorso, il ritiro dall’Iraq. Dal punto di vista militare gli Stati Uniti non sono nella posizione di intimidire nessuno, e l’Europa ancora meno.
Gli eserciti del Vecchio continente sono deboli, con la sola eccezione di Francia e Gran Bretagna, e non hanno una struttura di comando comune. Con il sostegno logistico degli Stati Uniti, l’Europa è riuscita a interdire all’aviazione di Muhammar Gheddafi i cieli libici, ma non è una potenza militare e la sua crisi finanziaria è ancora ben lontana dal trovare una soluzione. C’è stata una leggera schiarita a tale proposito durante le feste, dopo che il vertice di dicembre ha dimostrato che tutti i Paesi dell’Unione, con l’eccezione della Gran Bretagna, erano determinati a fare fronte comune per salvare la moneta unica e rimettere in piedi le loro economie: ma per il momento tutti i problemi sono ancora sul tappeto.
È stata espressa una volontà  politica, ma non basterà  a dissuadere i mercati dal chiedere tassi di interesse sempre più alti per prestare soldi agli Stati europei. L’Italia è sempre a rischio crollo, e tutta l’Unione con lei. Parallelamente sta crescendo la distanza fra l’Europa e gli europei. Questo non basterà  a spingere i suoi dirigenti ad accelerare l’integrazione economica e politica, passaggio indispensabile per superare le difficoltà  che la assillano. Non sarà  certo nel 2012 che l’Europa diventerà  una protagonista della scena internazionale e non è da escludere, considerando le sue difficoltà  interne, che Vladimir Putin sia tentato di far crescere la tensione con gli occidentali giocando la carta del nazionalismo.
Dopo l’anno del contagio democratico, ci attendono dodici mesi di incertezza.
*(Traduzione di Fabio Galimberti)


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