Cooperazione internazionale: passiamo al noi

by Editore | 30 Gennaio 2012 8:28

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Trovo inoltre interessante il tentativo di proporre la “ricetta del successo” dei progetti. Una ricetta che sembra accomunare, da Bill Gates (il suo discorso al World Economic Forum) al volontario padovano o trentino che sia, i salvatori di metà  mondo.

Andiamo per punti. Guardiamo gli ingredienti del successo: partecipazione, condivisione, formazione, basso costo ed auto-implementazione. Sono questi i capitoli suggeriti dal Presidente e coordinatore scientifico di Aps Gea onlus. Il prof. Andrea Camperio Ciani ripercorre le 5 parole affermando che spesso le ong elaborano sofisticati progetti spesso senza attendersi contributi “logici” da comunità  di analfabeti o primitive. Noi crediamo, invece, che non esistano né comunità  analfabete e né primitive. Ogni territorio è abitato da saperi millenari. Crediamo altresì che i popoli che hanno abitato Gaia prima di noi non possano essere definiti “primitivi”. Vi sarebbe una definizione altrettanto efficace per i popoli che spendono metà  finanziaria in armamenti?

Dovremmo, quindi, cambiare completamente approccio. Se si ritiene di avere qualcosa da fare per aiutare gli altri ad aiutarsi, allora diviene importante tenere sempre presente che non c’è niente da esportare e nessuno da istruire: c’è, invece, molto da imparare dagli altri, soprattutto a proposito dei propri limiti e dei limiti da darsi nell’intervenire.

Dovremmo, quindi, mutare la prima e seconda parola: partecipazione econdivisione. Queste presuppongono che vi sia qualcuno di esterno al territorio (esogeno) che abbia pensato qualcosa per il territorio e lo voglia condividere, poi, con il territorio. Si presuppone, inconsapevolmente, che il territorio sia un incapace che potrebbe, tutt’al più, dare un “contributo logico”. Ebbene molti di questi sud del mondo sono costellati ormai da Università  e centri di ricerca. Alcuni Sud di ieri sono tigri oggi con tassi di crescita a due cifre da far paura ma, nonostante ciò, esiste ancora il “noi” ed il “loro” – i “donatori” ed i “beneficiari” con una separazione netta ben descritta nell’esempio delle “arnie transumanti”. Come se loro, giovani pastori berberi, non potessero donare nulla a noi che vantiamo natalità  zero, Pil zero, tasso di corruzione tra i peggiori al mondo, impronta ecologica insostenibile e felicità  assente.

Se si partisse dal un pensiero “co-” (coideato e cooperativo) si riuscirebbe, forse, a superare il muro del noi/loro. Ed è per questo che, in cooperazione, dovremmo temere (non ho scritto “escludere”) le idee esogene che non partono dal territorio e dai suoi saperi. Ove v’è co-ideazione non è necessaria la condivisione. Semmai sono da condividere, con chi viene da fuori per poco tempo, tutti i saperi anziani (e non solo le tesi di dottorandi), la storia, gli scritti, gli atti politici, l’infinita letteratura antropologica che riguardano in specifico arnie, miele, deserti e pastori berberi.

Il dossier, dunque, affronta un secondo capitolo: condivisione. Scrive il prof: “è necessaria una seria opera di sensibilizzazione e conscientizzazione sulle cause del problema”. A differenza del professore non credo che si possa parlare di successo o fallimento a seconda se vi sarà  o meno “condivisione” delle cause di un problema. Prova tangibile sono le annuali Conferenze ONU sul clima. Tutti i paesi industriali hanno profonda coscienza di essere la causa dei cambiamenti climatici in corso ma veramente pochi hanno messo in atto strategie per evolvere.

Il dossier continua con la terza magica parola: formazione. Incredibile. Inizia con l’aforisma cinese: “se uno ti chiede un pesce, insegnali a pescare”. Non è straordinaria questa (mi permetta la parola) supponenza? Chi sono io, italiano, che pesco spesso (se non solo) con cospicue flotte di pescherecci su acque internazionali, anche con reti derivanti creando rischi ecologici a cetacei ed essendo responsabili della scomparsa del tonno rosso o alla diminuzione significativa del delfino? Come oso insegnare al pescatore maliano che, con hanno barche rudimentali e reti fatte a mano, pescano il sufficiente per la giornata anche perché impossibilitato ad implementare tutta la catena del freddo a fini conservativi dal pescatore al consumatore?

Anche qui non si tratta di elevare uno stile di vita (del locale) ma, prima, di ridurre l’impatto di un altro stile di vita (donatore esogeno). Non si tratta, come si scrive a fine paragrafo, di “trasferimento di capacità ” ma, semmai, di considerare la centralità  dei limiti della forma di sviluppo che ci siamo dati. Alla base della cooperazione si può in tal modo collocare una nuova coscienza: quella di specie, come la chiama Edgar Morin. Noi oggi potremmo aggiungere la necessità  di una coscienza non solo intraspecifica ma interspecifica, a partire dalla posizione distruttiva che la presenza della nostra specie ha assunto sul pianeta di cui sopra come descrive Ugo Morelli.

Il capitolo dedicato alla parola formazione dà , ad un certo punto, una soluzione parziale all’emergenza ponendo una verità : ove vi sono guerre, vi sono aiuti spesso sovrabbondanti che vengono impossessati dalle fazioni in lotta per rivenderli acquistando armi. Sin qui tutto vero. La soluzione passa, bypassando le fazioni e raggiungendo le donne. Bene. Io non sarei per mitizzare il gentil sesso, soprattutto durante i conflitti. Sono, invece, a chiedere, nelle emergenze, maggiori Istituzioni internazionali deputate a mitigarne gli effetti (oltre che a prevenirli), più forti agenzie, più coordinamento tra queste ed altri stakeholders. Ivi compresi i salvatori esogeni (laici o missionari che siano) che s’improvvisano factotum pur privi di conoscenze base sul lavoro emergenziale che sono proprie dei logisti per esempio di Msf o Cri o dei master di Ginevra.

Il capitolo termina con “una bella recita” nella comunità  chao lay di Ko Lipeh (credo sia in Thailandia) e narra di un’azione di formazione fatta con brochure, libri e volantini, stampati in Italia. Ove sennò? Dopo aver fallito l’approccio ci si è chiesti qual è la modalità  di comunicazione locale e s’è scoperto il “drama”. Si cambiò percorso e si provò con il teatro. Funzionò. Bene. Il prof., qui, riconosce il fallimento della prima azione. Lo sottolineo perché non succede spesso in cooperazione e vorrei invitare a diffidare dalle ong che non sanno narrare i propri fallimenti. Per questo va dato credito ad Aps Gea onlus.

E siamo alla quarta parola: basso costo. Il capitolo è tutto condivisibile a parte la mitologia dei volontari che conducono una vita piena di rischi e difficoltà , il più delle volte lontano da casa e che conducono estenuanti attraversamenti di foreste. A mio avviso noi cooperanti, m’includo anch’io non essendo più tale, siamo semplicemente dei privilegiati. Sono imparagonabili le fatiche nostre e quelle delle nostre controparti. Mi ripeto. L’analisi sui costi della cooperazione è seria e gli sprechi hanno caratterizzato la malacooperazione della prima repubblica mentre la seconda repubblica l’ha delegata alle regioni ed enti locali. La terza repubblica la vedrà  l’estinzione del pubblico e la resistenza del privato.

Infine l’ultimo capitolo sull’autoimplementazione ha un titolo assai rappresentativo: “con le proprie gambe”. In effetti, per coloro che hanno attraversato i sud del mondo, è comune vedere cooperanti su jeep non sempre sobrie superare gli “indigeni” che raggiungono il progetto o la sede di lavoro “con le proprie gambe”, Per l’appunto. L’ultimo capitolo, molto condivisibile per gli esempi di ecoturismo riportati e per l’addizionale di reddito che garantisce il successo o meno di un percorso, finisce riproponendo il problema della co-ideazione e, in sostanza, della cooperazione tutta. Ecco le parole: “Ma non c’è niente di più bello del constatare che una bella idea che hai avuto, sta aiutando una popolazione a condurre una vita più dignitosa”. Facciamo un’ esercizio di analisi logica. Soggetto: Tu (occidentale) hai avuto una bella idea. Loro (locali) ne stanno godendo i frutti. Possiamo passare al “noi”?

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