Contratti a tempo determinato nel 70% delle assunzioni e aumentano i licenziamenti

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Si entra da precari e dunque si esce presto. Quando scade il contratto, quando l’azienda incentiva l’uscita o quando arriva il licenziamento. In sei anni, dal 2005 al 2010, nelle grandi aziende italiane con più di 500 addetti l’occupazione è calata del 2,9%: crollata nell’industria (-8%), a galla nei servizi (+0,2%). A farne le spese soprattutto gli operai, peggio nell’industria e specialmente nel biennio “horribilis” 2009-2010. Un flusso – un turnover, come lo definisce l’Istat nel Focus sui flussi occupazionali diffuso ieri – sempre più “flessibile”, ovvero incerto. Sette lavoratori su dieci sono assunti con contratti a tempo. Uno su due è fuori alla scadenza e la maggior parte dei restanti è incentivata a lasciare il posto o peggio licenziata. Questo il quadro dell’Italia alle soglie di un anno di recessione e con la fiducia degli imprenditori, certificata ieri sempre dall’Istat, ai minimi dal 2009 e per le aziende del commercio addirittura dal 2003.

COME SI ENTRA
Il 71,5% dei nuovi ingressi nel periodo 2005-2010 è avvenuto grazie a contratti a tempo determinato, soprattutto nei servizi (73,6%). I picchi più alti si sono registrati nel commercio all’ingrosso e al dettaglio (87,2%) e nella ristorazione e alloggio (82,1%), che più di altri in questi sei anni hanno fatto ricorso a contratti flessibili. Il contratto a termine è la forma regina della flessibilità , seguito da stagionale e apprendistato. La grande industria italiana ha applicato l’assunzione a tempo indeterminato solo nei confronti di impiegati, funzionari e dirigenti. Gli operai, falcidiati da crisi e ristrutturazioni, hanno avuto la peggio. 

COME SI ESCE
La scadenza del contratto ha determinato quasi la metà  (il 47,3%) delle uscite registrate tra il 2005 e il 2010. Peggio nel terziario (52,8%), meglio nell’industria (34,8%). In altri termini, non c’è stato bisogno di licenziare o applicare l’articolo 18. Finito il contratto, fuori. Le “cessazioni spontanee”, che sono anti-cicliche e che fino al 2008 erano un terzo delle uscite, con la crisi si sono contratte: si lascia un lavoro solo se si ha garanzia di trovarne a breve un altro. In parallelo, sono lievitate le “cessazioni incentivate” e per licenziamento. Le prime erano il 9% del totale nel quadriennio 2005-2008, ancora relativamente tranquillo, salite al 13% nel 2009 e al 12% nel 2010 (anno di timidi segnali di ripresa, poi uccisi dalla stagnazione del 2011). I licenziamenti erano il 5% annuo nel periodo 2005-2008. Diventano il 6,7% nel 2009 e il 7,5% nel 2010 con punte preoccupanti nelle attività  manifatturiere (14,3%) e nelle costruzioni (18,4%). E parliamo di aziende molto grandi, con più di 500 addetti, dove in teoria l’articolo 18 si applica ancora.

SALDO TRA INGRESSI E USCITE
La differenza tra assunti e fuoriusciti ha presentato un saldo positivo – osservano i ricercatori Istat – nel biennio 2006-2007 e negativo nel triennio 2008-2010, quando le imprese hanno imbarcato sempre meno addetti e sfoltito manodopera. In particolare, l’Istat individua tre fasi distinte: una di crescita economica (2005-2007), una di crisi (dalla seconda metà  del 2008) e una di leggera ripresa nel 2010. Nel corso della crisi, si ricorda, vi è stato un ampio uso di cassa integrazione. Altrimenti i numeri sarebbero stati ben peggiori.


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