Carlo Fruttero, un’ironia amabile e tagliente
Aveva un aspetto molto fragile, e però continuava ad avere quei suoi occhi acuti e penetranti, una mente lucidissima e una dolce capacità di malignare. È la stessa che si ritrova, sotto forma di critica di costume, nei suoi romanzi, a cominciare dal celebratissimo Donna della domenica (Mondadori 1972), scritto a quattro mani, come tanti altri, insieme con Franco Lucentini, o sotto forma di rievocazione spesso autoironica, nei pezzi raccolti nel libretto di memorie Mutandine di Chiffon (Mondadori 2010).
Il permesso di dare giudizi taglienti (e a volte un po’ maligni) gli veniva dalla lunga carriera di traduttore (da Beckett, Salinger, Nathanael West, Thornton Wilder e tanti altri), di direttore della gloriosa collana di fantascienza «Urania», di curatore, con Sergio Solmi, della prima grande antologia di fantascienza pubblicata in Italia Le meraviglie del possibile, di scrittore-artigiano di alta qualità , impegnato a dare dignità a generi considerati di solo consumo (la fantascienza, i gialli). Quel permesso gli veniva dal lungo lavoro di consulente editoriale (presso Einaudi e Mondadori) ma anche di scrittore in proprio (dopo La donna della domenica, molti altri romanzi e racconti, spessissimo in collaborazione con Lucentini).
La forza di Fruttero, mi pare, stava in questo: nel prestare un’attenzione curiosa e scrupolosa ai prodotti letterari considerati minori, ma dotati di grandi qualità narrative e di presa sui lettori (ammiratissimo Simenon, naturalmente, ma anche molti americani), e però anche respingerne quei prodotti che urtavano il suo gusto, di scrittore assai raffinato. Eccolo, per esempio, rievocare i regalini che uno zio ingegnere portava per la sua famiglia da Parigi foulard, profumi e anche i romanzi popolarissimi di Maurice Dekobra: «Tempo fa, ha confessato Fruttero, ho provato a leggerne uno: impossibile»).
Di recente ha raccontato sulla «Stampa» di avere provato a leggere i romanzi polizieschi, fortunatissimi, dello svedese Stieg Larsson e di avere trovato, anche quelli, impossibili: «A me, personalmente, sembrano scritti non col computer, ma dal computer. È come se la macchina producesse direttamente questa brodaglia, un pezzetto di carota, una buccia di patata, e su tutto un certo colore verdino. Insomma, mi ricorda le antiche minestre che pare servissero nei collegi dei bambini poveri, tanti anni fa».
In Mutandine di chiffon Fruttero rievoca con tocchi svelti e affettuosi tanti incontri e tanti amici, soprattutto dell’ambiente editoriale e della corporazione degli scrittori, da Calvino a Bollati, da Luciano Foa a Lucentini. Si indovinano amicizie solidissime, coinvolgenti, ma la punta severa del giudizio non manca mai. Ecco, per esempio, un ritratto di uno degli amici più cari, Pietro Citati: «Tanto vale togliersi subito il pensiero: Citati è ammirato da molti ma da molti detestato. Arrogante, sprezzante, tagliente, è sempre lui l’unico ad aver capito tutto. Gli autori di cui non si occupa non esistono. Quelli che esistono si chiamano Goethe, Omero, Kafka, Proust, Tolstoj e pochi altri dello stesso club inavvicinabile».
Fruttero passava invece il suo tempo con quelli avvicinabili: Simenon, Bradbury, Frederick Brown e gli altri come loro.
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