QUEL MONDO DI MASCHERE AMATO DA PIRANDELLO

by Editore | 27 Gennaio 2012 7:13

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Nell’autoritratto del 1909 Adolfo Wildt fa aderire al proprio viso due sue ossessioni: la maschera e il dolore. Maschera del dolore è il titolo della raffinatissima scultura in marmo, icona dolente che diventa manifesto e sintesi di più linguaggi: l’arte, il teatro, la letteratura. E, attraverso una maschera vera e propria, non nell’accezione teatrale ma funeraria, l’artista sfida la morte. 
Del resto, è con il titolo de La vedova che nel 1893 Wildt, 25enne, aveva esposto a Milano il ritratto della moglie Dina, anche lei raffigurata dal marito, che si fece passare per morto, attraverso un travestimento: quello della fedele schiava di Nerone Atte, che è l’altro titolo della scultura presente in due versioni, in marmo di Candoglia e di Carrara, alla grande antologica aperta a Forlì.
Uomo schivo, ossuto come i suoi personaggi virili, nato da una famiglia povera di Milano e cresciuto a bottega tra gli strumenti umili dello scultore, rimanendo tutta la vita legato alla dimensione spirituale e manuale dell’artista, Wildt ha assorbito dalla letteratura contemporanea il tema del doppio, l’enigma dell’essere e dell’apparire. E l’ha affidato alla figura arcaica della maschera. Dalle forme del teatro No giapponese sembra ad esempio derivare l’Idiota, in cui manca la parte del labbro inferiore e del mento a causa di un taglio netto, voluto, della scultura, come a sottolineare la funzione di oggetto scenico. L’opera fu comprata da Gabriele D’Annunzio nel 1925, stesso anno in cui Luigi Pirandello commissionava allo scultore milanese le maschere dei Sei personaggi in cerca d’autore. Wildt amava il teatro, l’opera soprattutto. E almeno due drammi di Wagner sono citati nei sui lavori: la Venusberg del Tannhà¤user nel gruppo marmoreo di Pallanza; e il Parsifal nella sua ultima scultura, il Puro folle, esposta alla Quadriennale romana del 1931, anno della morte.
In contatto continuo nei primi anni del Novecento con la cultura tedesca grazie al contratto di esclusiva con il mecenate prussiano Franz Rose, Wildt ignora la matrice esotica dell’espressionismo tedesco e francese. Le orbite vuote non le desume dalle maschere africane. Ma le ottiene seguendo un principio di svuotamento del corpo dall’interno, secondo un “per via di levare” michelangiolesco della scultura che lo porta a fermarsi al limite estremo: quello della pelle, ossia la maschera. E se guarda alla plastica berniniana, oltreché a quella ellenistica e alla gotica, è per aprire attraverso la bocca la scultura alla vita: per far entrare la luce seguendo la via cava degli occhi. 
Eseguiti mai dal vivo e sempre attraverso foto in bianco e nero che esaltano il chiaroscuro risentito, anche i visi di Mussolini, di Toscanini, della Sarfatti sono ritratti in (forma di) maschera. Ed esplicitamente lo è quello di Mariuccia Chierichetti del 1921, tramandato dalla rivista Emporium, o la Maschera di Cesare Sarfatti. Potenza evocativa ed allegorica di questa seconda, altra faccia era apparsa del resto, nel 1919, attraverso le maschere, nel monumento funebre del pittore Aroldo Bonzagni al Cimitero monumentale di Milano, raffiguranti Ironia, satira e dolore: tre volti “parlanti” quanti se ne contano nelle Maschere del dipinto del 1921 di Felice Casorati, pittore ammirato da Wildt. E due maschere appaiono in quella sorta di Giano bifronte che è Carattere fiero / anima gentile del 1912, dove lo scultore milanese contrappone i due aspetti della sua arte: la natura virile, sofferente; e quella femminile, luminosa e felice, anche se dotata delle micidiali trecce di un’altra maschera: Medusa.

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