C’è ancora un Kennedy nella politica americana
WASHINGTON L’intervallo di tre anni senza un Kennedy sulla scena politica americana è finito: la desolata corte di Camelot tenta di riaprire le porte con il trentunenne Joe Patrick (e che altro?), il nipotino di Robert “Bobby”, assassinato a Los Angeles. Era dall’agosto del 2009, quando suo zio Ted si arrese al tumore al cervello, che il “brand”, il marchio più celebre e indelebile da mezzo secolo fra le dinastie americane, non aveva un proprio prodotto sul mercato della grande politica nazionale. Ci sarebbe, per l’esattezza, un altro Bobby, il fratello maggiore della signora Maria Shriver divorziata Schwarzenegger, eletto sindaco di Santa Monica in California, ma di lui, che non fa neppure Kennedy di cognome, nessuno si era accorto.
Arriva, annunciato da una folta e fiammeggiante capigliatura rosso-arancione, dietro un volto che la caustica Arianna Huffington ha descritto come «più kennedyano dei Kennedy», Joseph Patrick III. È figlio dell’ex deputato Joseph Patrick II che era figlio di Robert Francis Kennedy, pronipote di John Fitzgerald Kennedy e di Edward “Ted” Kennedy, i fratelli di nonno “Bobby”. Con un curriculum politicamente perfetto, dalla laurea a Stanford dove era capitano della squadra di lacrosse, al dottorato in legge nella scuola di famiglia dove un Kennedy viene accolto anche senza avere le qualifiche necessarie ad altri studenti, Harvard, fino a due anni nel “Peace Corp” fondato dal prozio (JFK) e poi altri due di attività legale in uno studio per il patrocinio dei poveri, JPK il Terzo si è ingolosito per il seggio parlamentare che un altro superprogressista del Massachusetts, il deputato Barney Frank, ha deciso di lasciare dopo otto rielezioni e sedici anni di servizio.
A 31 anni, la stessa età del prozio JFK (quello ucciso a Dallas) quando vinse la sua prima elezione parlamentare, Joseph ha deciso di fare il salto dalla politica locale nel retrobottega del Massachusetts, dove aveva fatto benino, ma non benissimo, verso il circo massimo di Washington. Era stato eletto “procuratore di contea” a Cape Cod, accanto a quella Hyannisport dove i Kennedy avevano creato il proprio piccolo feudo marino e davanti al braccio di oceano nel quale il cugino John John si era inabissato ai comandi del suo “Piper” con la moglie e la cognata. Ma i sondaggi fra gli elettori, che da oltre sessant’anni hanno vissuto all’ombra di quel nome schiacciante, aveva indicato una certa “Kennedy fatigue”, una sgradevole sazietà per la dinastia e adombrato l’ipotesi di una trombatura.
JPK III aveva allora deciso di allargare i proprio orizzonti e farsi eleggere come magistrato nella più grande e indifferente Contea di Middlesex, per sgranchire le gambe politiche anche fuori dalla “nurserie” di casa. Il successo lo ha incoraggiato a dichiararsi candidato, per il prossimo 6 novembre, al posto di Barney Frank, formidabile deputato della Commissione Finanze e forte del voto del mondo gay, al quale lui vigorosamente e orgogliosamente appartiene. Ma l’ultimo dei Kennedy Boys a tentare l’avventura e a guidare la terza generazione, dopo le tragedie della prima e la misera figura della seconda, incluso il padre impegolato in un pasticciatissimo tentativo di annullamento del matrimonio dalla mamma, non risulta avere la stessa base elettorale di Frank, pur non essendo ancora sposato con una donna, né avendo figli, almeno che si conoscano.
Ideologicamente, e programmaticamente, il giovanotto che vorrebbe riesumare la dinastia dall’oblio politico, è puro distillato kennedysta, “liberal” ma non statalista, come vuole la moda del momento, tutto per la giustizia sociale e la redistribuzione del reddito ma senza aumenti delle tasse né del già schiacciante debito nazionale, cattolico per forza, ma certamente più da Concilio Vaticano II che da Inquisizione e da Concilio di Trento, come il repubblicano rivelazione delle primarie, Rick “Il Sacrestano” Santorum della Pennsylvania. In altre ere politiche, la sua vittoria alle prossime politiche di novembre sarebbe parsa una formalità , ma il vento anche nel Massachusetts già irlandese e italiano e democratico, è molto cambiato.
Il collegio elettorale che per otto elezioni consecutive aveva rinnovato la patente parlamentare di Barney Frank è stato ridisegnato e ritagliato in modo da comprendere molte comunità e sobborghi repubblicani, la ragione per la quale il vecchio e astuto Frank si è chiamato fuori. La “Kennedy Fatigue”, la stanchezza per la saga sfiancante di questa famiglia ingombrante, è diffusa anche oltre i prati di casa attorno a Cape Code, Martha’s Vineyard, Nantucket e Hyannisport, dove anche il villaggio vacanze privato dei Kennedy è in via di liquidazione. Lo “ius primae electionis”, il diritto per nascita alla vittoria in quei collegi per i baroni irlandesi, è da tempo decaduto.
È un eccellente oratore, come dimostrò davanti al Senato del Massachusetts in un’elegia per commemorare il prozio presidente, l’evento che lo portò all’attenzione dei media e dei boss democratici nella regione. E può darsi che una brezza di nostalgia riesca a spingerlo verso la cupola del Campidoglio, per un ultimo hurrah, un’ultima carica dei Kennedy. Sperando che la brezza non sia troppo forte e non lo spinga a sbattere contro uno dei “jersey” di cemento a protezione del Congresso, come fece nel 2006 un suo zio, l’onorevole Patrick (che altro?). Ciucco perso.
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