Berlino si arrocca sulla splendida solitudine Merkel: il declassamento? Non ci sorprende

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BERLINO – È come parlare a un muro. Al pressing annunciato dei partner europei, alle richieste che Berlino faccia di più per salvare l’euro – attese per il vertice a tre Merkel-Monti-Sarkozy a Roma il 20 gennaio, e al summit europeo di fine mese – la Cancelliera reagisce ostentando un misto di fredda calma e indifferenza. L’establishment tedesco fa di tutto per mostrare di non temere un isolamento. Accetta il rischio di un’immagine di fortezza inespugnabile e magari egoista dell’economia forte, sempre più forte e più diversa dalle altre. Dati economici e analisi dei maggiori economisti confermano. Ma alcune paure emergono anche a Berlino: sono soprattutto i falchi ad avvertire che la Germania rischia di pagare un conto sempre più alto, e alla fine insostenibile, come pagatore dell’ultima salvezza.
Intervenendo ieri mattina a una riunione elettorale del suo partito a Kiel, Angela Merkel sembra aver parlato soprattutto per avvertire Monti e Sarkozy di non farsi illusioni su un suo ammorbidimento, e per rassicurare gli elettori. Il downgrading di tanti Paesi dell’eurozona, Francia inclusa, era in parte da aspettarselo, ha detto. Sfoggiando un senso di superiorità  rispetto a Parigi mai udito da un cancelliere. Secondo avvertimento: il declassamento dei partner non vuol dire che la Germania debba fare di più per finanziare il salvataggio della moneta unica. L’Unione europea ha davanti a sé una lunga strada per riconquistare la fiducia dei mercati, ma è essenziale varare ancor più presto del previsto il Patto fiscale, e renderlo severo, non annacquarlo in alcun modo. Priorità  nell’ordine: moneta stabile, conti risanati, e crescita menzionata solo al terzo posto.
Un discorso accolto come molto rassicurante solo dagli elettori tedeschi. I consensi della CduCsu, il blocco cristianoconservatore della Cancelliera, salgono saliti al 41 per cento, quelli della Spd (Socialdemocrazia, primo partito d’opposizione, favorevole agli eurobond) crollano al 26. Il retroscena dell’inflessibilità  tedesca ha questo volo di popolarità  quale primo elemento. Il secondo sono i moniti dei falchi nel campo governativo: rischiamo anche noi, dice Frank Schaeffler, forte voce euroscettica nella Fdp (partito liberale, partner minore della coalizione). «Potremmo trovarci a dover finanziare non più il 40 per cento ma quasi il 75 per cento del fondo di salvataggio europeo Fesf». Klaus-Peter Wilsch, democristiano come la cancelliera, chiede di smetterla di finanziare a ogni costo i Paesi in crisi, altrimenti Berlino perderà  a sua volta la tripla A. E Joerg Asmussen, rappresentante tedesco alla Bce, spara a zero sul nuovo draft di patto fiscale europeo: «Sostanzialmente annacquato».
Appelli alla solidarietà  europeista non si sentono. Il sistema Germania si sente molto più forte degli altri. In una struttura imperiale creata dai mercati, il downgrading in massa nell’eurozona ha accelerato la fuga degli investimenti verso i Bund e via dagli altri titoli sovrani europei, con un nuovo sconto sul finanziamento dell’alto debito pubblico tedesco. L’industria (40 per cento del Pil, contro il 27,8 in Francia) e l’export verso Usa e Asia tirano. Al massimo Berlino rischia una recessione “light”, non una catastrofe, dicono ascoltati economisti, da Jens Boysen-Hogrefe dello IfW ad André Schmidt. I siti online di molti media sottolineano impietosi che il tedesco lavora sei settimane l’anno in più d’un francese. La valutazione dell’establishment berlinese sembra vicina a quella di Moritz Kraemer, managing director di S&P per l’Europa, secondo cui la Germania è «il Paese che meglio può fronteggiare uno shock». Pronta anche a fronteggiare uno scenario d’inizio della fine dell’eurozona.


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